appello

Appello a tutti...

Quest'anno il Lampedusa in Festival è arrivato alla sua terza edizione. Con molto entusiasmo stiamo portando avanti questa iniziativa che riteniamo sia importante per Lampedusa, i lampedusani e tutti coloro che amano l'isola. Purtroppo, anche quest'anno, dobbiamo fare i conti con le nostre tante idee e i nostri pochi fondi per realizzarle.

Chiediamo a tutti coloro che credono nel Lampedusa in Festival e nel lavoro che Askavusa sta facendo -rispetto all'immigrazione e al territorio di Lampedusa- di dare un contributo, anche minimo, per permettere al Festival di svolgere quella funzione di confronto e arricchimento culturale che ha avuto nelle passate edizioni.

Per donazioni:
Ass. Culturale Askavusa
Banca Sant'Angelo
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martedì 18 agosto 2009

Libia: massacro a Benghazi, 20 somali uccisi dalla polizia

da FORTRESSEUROPE.BLOGSPOT.COM
BENGHAZI, 16 agosto 2009 – Bagno di sangue a Benghazi. Almeno 20 rifugiati somali sarebbero stati uccisi dalla polizia libica durante un fallito tentativo di evasione dal centro di detenzione di Ganfuda, dove erano detenuti perché sprovvisti di documenti. Cinque di loro sarebbero morti sotto gli spari della polizia al momento della fuga. Gli altri 15 sarebbero invece morti a seguito delle violenze inferte loro dagli agenti di polizia, armati di manganelli e coltelli. La repressione è stata durissima, i feriti sarebbero almeno una cinquantina, in maggior parte somali. I fatti risalgono alla prima settimana di agosto. La notizia è stata diffusa il 10 agosto dal sito internet della diaspora somala Shabelle Media Network che ha parlato telefonicamente con un testimone oculare della strage. La notizia è stata ripresa anche dalla stampa libica (Libia Watanona) e internazionale (Voice of America). Ed è confermata da una terza fonte, con cui Fortress Europe è direttamente in contatto a Benghazi, ma della quale non possiamo svelare l'identità per motivi di sicurezza. Sebbene al momento non si conosca ancora l'esatta ricostruzione dei fatti e non si sappia con certezza il numero delle vittime, si tratta comunque della più grave strage avvenuta nei campi di detenzione libici. Una notizia credibile anche alla luce di massacri ben più atroci, come quello che venne commesso a Tripoli, nel carcere di Abu Salim, nel giugno del 1996 e che costò la vita a centinaia di detenuti libici (vedi lo speciale di HRW). Ovviamente le autorità libiche hanno prontamente smentito la notizia. L'ambasciatore libico di stanza a Mogadiscio, Ciise Rabiic Canshuur ha definito la notizia una “menzogna” e ai giornalisti ha chiesto: “prima di parlare o scrivere dovrebbero confrontarsi con noi”.

Questa notizia è gravissima. Questa è la Libia verso cui l'Italia rispedisce fieramente centinaia di emigranti e rifugiati. Gli ultimi 80 somali sono stati respinti lo scorso 12 agosto. Dall'inizio di maggio i respinti sono almeno 1.216. O almeno quelli di cui si ha notizia. Perché di altri non si sa niente. Come del gruppo di 80 eritrei imbarcatisi il 29 luglio e mai arrivati, eppure ufficialmente mai respinti. Dall'estero i familiari chiedono notizie di loro. Speriamo soltanto che non sia accaduta una tragedia in mare.

Rinnoviamo l'invito ai parlamentari italiani e europei affinché si faccia chiarezza su quanto accaduto.
E invitiamo i nostri lettori a esprimere il proprio sdegno all'ambasciata libica in Italia
Ecco i contatti:

Ambasciatore Hafed Gaddur
Ufficio Popolare della Gran Jamahiria Araba Libica Popolare Socialista
Via Nomentana, 365 - 00162 - Roma
Tel. 06-86320951
Fax 06-86205473
Email: info-ambasciata@amb-libia.it

sabato 1 agosto 2009

Lettera degli eritrei a Tripoli. Torturati in Libia come in Eritrea


Da: fortresseurope.blogspot.com

"Per gli eritrei, senza riguardo se in Eritrea o in Libia

In un’epoca di civilizzazione, il mondo tende sempre più verso due opposti estremi: alcuni governi adottano dittature sempre più reazionarie, e altri invece democrazie estremamente liberali. Quale è la tendenza in Eritrea e in Libia? Noi eritrei in Libia, abbiamo fatto esperienza della situazione di entrambi i paesi. E non vediamo nessuna differenza, qui come là c’è solo violenza e tortura. L’unica differenza è che l’Eritrea sta torturando i propri cittadini, mentre la Libia lo fa con gli stranieri. Ma le torture sono simili in tutto e per tutto, ed è vergognoso doverne parlare nel XXI° secolo.

Oggi i rapporti di molte organizzazioni non governative ci dicono che l’Eritrea è una “piccola grande prigione”. Lo dice il rapporto di Human Rights Watch, ma ci sono molte altre cose che non vengono dette. Persone innocenti sono detenute indefinitamente senza capi d’accusa e senza nessun processo. Molti di loro sono danneggiati a vita dalla detenzione, sia danni fisici che mentali. Sono trattati alla stregua di quanto accade a Guantanamo.

Oggi tutta l’Eritrea è una prigione. Chiunque non voglia rimanere nel servizio di leva a vita, è detenuto indefinitamente. I centri di detenzione crescono dappertutto, come funghi, in ogni città eritrea. Anche i posti più lontani stanno diventando terreni per la costruzione di prigioni. Ogni divisione dell’esercito è autonoma e ha le sue proprie prigioni, dove i membri dell’esercito sono detenuti in condizioni inumane per periodi indeterminati. Nessuno è autorizzato a protestare su niente. Altrimenti sarà considerato un ribelle. Pertanto chiunque non sia soddisfatto del sistema deve scappare e salvare se stesso dall’incarcerazione.

Le principali prigioni adesso sono:
1. Track B: è un centro di detenzione militare, si trova pochi chilometri a ovest di Asmara, ed è usato per imprigionare i membri dell’esercito che ritornano dalle famiglie senza autorizzazione o che rimangono a casa oltre il tempo concesso per la licenza. I detenuti sono chiamati “Zikoblelu” che significa illegali.
2. Adi-Abeyto: si trova circa 3 chilometri a nord ovest di Asmara. Viene usato soprattutto per detenere le persone fermate con documenti non validi. Una sezione è anche utilizzata per detenere i familiari dei disertori dell’esercito fuggiti all’estero illegalmente.
3. Wia e Gel’alo: a sud est di Massawa, si trovano nella depressione di Danakil, una delle zone più calde del paese, dove le temperature superano facilmente i 45°, con un altezza sotto il livello del mare e sempre molto caldo. Vengono usati per la detenzione dei cittadini accusati di ribellione. Queste prigioni sono state usate anche come centri di arresti di massa nel 1999 per circa 10.000 membri dell’esercito e nel 2001 per tutti gli studenti universitari accusati di ribellione.
4. Ebatkala: questa è una prigione di massima sicurezza molto controllata, sulla strada per Massawa, usata per detenere ex alti funzionari di governo accusati di tradimento. E’ dove sarebbero detenuti ministri e giornalisti arrestati nel 2001 e mai processati.
5. Prigioni delle Sotto Zone: Si trovano in ogni città delle Sotto-Zone e sono usate soprattutto per la detenzione dei familiari dei disertori.
6. Ala: situata a est di Asmara, sulla strada tra Dekemhare e Massawa. Usata per la detenzione dei disertori e delle persone accusate di lavorare come contrabbandieri per far scappare oltrefrontiera i disertori.
7. Mai-Edaga: a sud di Dekemhare, sulla strada per Tsorona, ha le stesse funzioni del carcere di Ala.
8. Sawa (Shadishay Birgad): questo è il principale centro di addestramento militare, e a volte è usato per la detenzione di membri permanenti dell’esercito di Sawa e delle zone limitrofe
9. Nakura e Dahlak Islands: queste isole sono state usate come carceri durante il periodo coloniale italiano e inglese per detenere i ribelli. Ora sono usate per il trattenimento dei disertori rimpatriati dagli altri paesi. Negli ultimi anni molti Paesi, non consapevoli della situazione dell’Eritrea, hanno deportato molti eritrei, buoni candidati per queste galere.

Queste sono le principali prigioni in Eritrea e il lettore dovrebbe annotare che ce ne sono molte altre, più piccole e sconosciute, oltre a luoghi segreti di detenzione in aree remote del paese. Chiunque provi a evadere viene fucilato. Il modo in cui sono trattati dentro è terribile. Molti di loro rimangono sterili a causa dei calci, e molti altri perdono la vista per gli anni passati nelle buie celle sotterranee. Secondo testimoni oculari, la morte in questi luoghi è normale e nessuno se ne preoccupa, se non le madri di questi innocenti. Più scopri queste storie e più dolore senti.

Torniamo alla Libia. Gli eritrei fuggono da queste torture cercando qualche forma di sollievo altrove nel mondo. Ma la difficoltà della situazione sembra emigrare con loro. La Libia non ha differenze dall’Eritrea rispetto alle carceri. Ovunque ci sono prigioni, tutte con torture simili, ma grazie a Dio in Libia nessuno viene fucilato. I principali centri di detenzione in Libia dove gli eritrei vengono imprigionati sono:

1. Ganfuda (Bengasi): si trova nella città di Bengasi e vi sono portate persone catturate lungo la strada per Tripoli
2. Kufrah: è la prima città libica dopo il confine sudanese. Qui vengono portati i disertori presi al confine col Sudan mentre tentano di entrare in Libia
3. Misratah: ufficialmente è chiamanto “campo” e le persone sono formalmente sotto la tutela dell’Unhcr, ma non raggiunge nessun livello di un campo profughi. Circa 700 eritrei vi sono detenuti da oltre due anni e senza nessuna speranza.
4. Fellah: è una prigione a Tripoli, nel quartiere di Abu-Salim dove molti immigrati di diverse nazionalità sono portati per soggiorno illegale in Libia.
5. Tuaisha-Binkeshir: a Tripoli
6. Gurgi: a Tripoli
7. Zliten: a circa 150 km a est di Tripoli, usata soprattutto per detenere i migranti catturati durante l’imbarco per la traversata del terribile mare per raggiungere l’Europa.
8. Zawiyah e Surman: a circa 70 km a ovest di Tripoli.
9. Zuwarah: nella città di Zuwarah, vicino al confine con la Tunisia, usata per detenere i migranti catturati durante l’imbarco o intercettati in mare.

In fin dei conti, la sofferenza è la stessa, cambia solo il posto. Tutte le informazioni sono basate su testimonianze oculari. Stiamo tentando di esplorare le similarità e le differenze tra i tipi di violenza in Eritrea e Libia. Tutte le vittime di queste violenze stanno cercando come soluzione, di ottenere una protezione internazionale sotto la quale poter vivere in sicurezza. Nessuno sa esattamente quando, ma tutti qui aspettano il giorno in cui tutte queste sofferenze avranno fine e tornerà la libertà!!!"

Anonimo

domenica 19 luglio 2009

Lavori forzati e torture per gli eritrei deportati dalla Libia


ROMA, 18 luglio 2009 – L'Eritrea sta investendo molto nel turismo. Lungo il mar Rosso ad esempio, a metà strada tra Massawa e Assab, c'è un albergo a Gel'alo che nessun turista dovrebbe perdersi, specialmente se italiano. Se non altro perché è stato costruito da esuli eritrei costretti ai lavori forzati dopo essere stati arrestati sulla rotta per Lampedusa e rimpatriati dalla Libia su voli finanziati dall'Italia. Proprio così. Non chiedete spiegazioni all'ambasciata eritrea, potrebbero fraintendere. Secondo la propaganda della dittatura infatti, quell'hotel è frutto del coraggio della gioventù eritrea, e in particolare delle forze armate, dal 2002 impegnate in un programma di sviluppo del paese, denominato Warsay Yeka'alo. Noi invece le spiegazioni siamo andate a chiederle agli unici tre che da quell'inferno sono riusciti a scappare e che oggi vivono in Europa. Hanno accettato di parlarci, ma sotto anonimato e a patto di non svelare la città dove oggi vivono sotto protezione internazionale.

I fatti risalgono al maggio del 2004. Un vecchio peschereccio diretto a Lampedusa con 172 passeggeri, in maggior parte eritrei, invertì la rotta dopo essere finito alla deriva e si arenò davanti alla costa libica. Nel panico generale si dettero tutti alla fuga, ma la maggior parte furono arrestati. Dopo un mese nel carcere di Misratah, vennero trasferiti in una prigione di Tripoli. D. aveva ancora le piaghe delle ferite aperte. Insieme a due amici erano stati picchiati e torturati per tre giorni in cella di isolamento per un fallito tentativo di evasione. Un giorno di buon mattino si presentò un'unità speciale dell'esercito. “Caricarono un gruppo di eritrei su un camion, nessuno di noi immaginava cosa sarebbe accaduto, pensavamo si trattasse dell'ennesimo trasferimento”. E invece no. Erano diretti all'aeroporto militare di Tripoli. Dove ad attenderli c'era un aereo della Air Libya Tibesti. Era il 21 luglio del 2004. Nel giro di 48 ore, sotto l'occhio discreto dell'ambasciatore eritreo a Tripoli, partirono altri tre aerei, che rimpatriarono un totale di 109 esuli.

Ad attenderli all'aeroporto di Asmara c'era l'esercito. Dopo un rapido appello furono caricati su dei camion militari e portati a Gel'alo, sul mar Rosso. Non era un carcere, ma un campo di lavori forzati. Fuori città, in una zona arida e isolata. La struttura era circondata da un fitto bosco di arbusti spinosi, che rendevano impossibile ogni tentativo di fuga. Mantenuti sotto strettissima sorveglianza, ogni giorno marciavano scortati dai militari armati per lavorare al cantiere del nuovo albergo di Gel'alo, simbolo del progresso dell'economia del Paese. I prigionieri erano circa 500. C'erano i cento deportati dalla Libia e i duecento deportati da Malta due anni prima, nel 2002. Gli altri erano disertori dell'esercito arrestati lungo la frontiera mentre tentavano di fuggire clandestinamente dall'Eritrea verso il Sudan. La giornata tipo iniziava con l'appello, alle cinque del mattino e poi dalle sei al lavoro nei cantieri, sorvegliati e bastonati dai militari, scalzi e denutriti, in una delle zone più calde del deserto eritreo, dove le temperature sovente superano i 45°. Per pranzo e per cena il menù era pane e acqua. Rimasero in quelle condizioni per dieci mesi, fino al 30 maggio del 2005. Dopodiché furono trasferiti nel campo di addestramento militare di Wi'yah per essere reintegrati nell'esercito, per il servizio di leva a vita. Tutto questo senza essere autorizzati a ricevere visite o telefonate dei propri familiari, tenuti all'oscuro del loro destino.

La loro storia è confermata da un quarto testimone. Si tratta di uno dei 232 esuli eritrei rimpatriati da Malta nel settembre del 2002 e intervistato dalla documentarista eritrea Elsa Chyrum nell'agosto del 2005. Testimone oculare della morte per stenti di alcuni dei prigionieri per la durezza delle condizioni di lavoro, la denutrizione e la mancanza di cure. “Tutti sanno – dice - che Alazar Gebrenegus, del gruppo dei deportati da Malta, morì per la mancanza di cure, implorando un'arancia”. E se la fame, la sete e il caldo non erano abbastanza, continua il rifugiato, “i prigionieri erano continuamente picchiati”.

Anche questa notizia trova conferma in una terza fonte. Nel rapporto “Service for Life”, pubblicato lo scorso 20 aprile da Human Rights Watch, c'è un intero capitolo dedicato alle torture. Elicottero, otto, ferro, Gesù Cristo, gomma. I nomi in italiano delle tecniche di tortura lasciano supporre che siano eredità delle nostre forze coloniali. Il rapporto conferma che un gruppo di 109 eritrei venne rimpatriato nel 2004 dalla Libia e si sofferma anche sul destino dei rimpatriati da Malta nel 2002. Vennero rinchiusi nel carcere di massima sicurezza sull'isola di Dahlak Kebir, in celle sotterranee, in condizioni di estremo sovraffollamento, e tenuti alla fame.

Quasi tutti i 3.000 eritrei sbarcati nel 2008 in Italia hanno ottenuto un permesso di soggiorno di protezione internazionale. Eppure l'Italia fa di tutto per bloccarli prima. E non è soltanto la storia dei 76 eritrei respinti in Libia lo scorso primo luglio. Né dei 700 che da tre anni sono nel carcere di Misratah, in Libia. È una storia che inizia proprio con E., D. e M. Già, perché i quattro voli che deportarono il gruppo di 109 rifugiati furono commissionati e pagati dall'Italia, all'interno degli accordi di cooperazione contro l'immigrazione firmati nel 2003 con Gheddafi. Lo dice un documento riservato della Commissione Europea. C'era anche un quinto volo, ma non arrivò mai a destinazione. Perché fu dirottato. Proprio così. Era il 27 agosto del 2004. Gli 84 passeggeri presero il controllo dell'aereo e atterrarono a Khartoum, dove vennero riconosciuti come rifugiati politici dalle Nazioni Unite. Peccato, avrebbero potuto contribuire anche loro al Warsay Yeka'alo Program

venerdì 10 luglio 2009

lampedusa in festival

Storie, incontri, vissuti, flussi migratori, cultura che appartengono al bacino Mediterraneo Un concorso per filmaker, un linguaggio nuovo capace di parlare ai giovani, aperto a tutti italiani, e stranieri su temi attuali e importanti, su temi che hanno fatto conoscere a tutta l’Italia, il comune di Lampedusa, come una comunità capace di dare speranza.
In questo particolare momento storico, la questione della coesistenza tra popolazioni e tradizioni culturali differenti che si sono sviluppate in regioni lontane del pianeta e si ritrovano identiche e diverse all'interno di molteplici e complessi contesti territoriali, emerge in modo sempre più marcato. I problemi che riguardano gli “stranieri” spesso sono affrontati seguendo ragionamenti, e immagini che rappresentano il rapporto tra migrante (ma non solo: l'escluso, il diverso) e non-migrante (lo stanziale che apparentemente sembra "subire" l'arrivo di un "altro"), esclusivamente attraverso confronti generici, colmi di pregiudizio. Di fronte a forme di conflitto di natura sempre più culturale e religiosa, è necessario individuare strategie e dinamiche di composizione delle differenze. Confronti non tra culture tesi all'appiattimento o alla pacificazione tra esperienze diverse, sociali, culturali, religiose, politiche, ma azioni, iniziative, fatti concreti che promuovano scambio e conoscenza reciproca – una certa ricomposizione dei rapporti.

La Settima Arte, il cinema o arte cinematografica può aiutare a trovare linguaggi nuovi in grado di raccontare questi cambiamenti /questi incontri. Il cinema può essere strumento valido per costruire una cultura in grado di parlare a tutti, attraverso storie e immagini. Il cinema come osservatorio sulla realtà del cambiamento, capace di promuovere riflessioni non solo sui disagi, le tensioni, i conflitti ma anche le speranze, le aperture e la ricchezza che fanno da sfondo all’immigrazione, al confronto fra culture diverse.

giovedì 9 luglio 2009

C'erano 74 rifugiati eritrei tra gli 89 respinti il primo luglio - L'appello della comunità eritrea di Tripoli

Tripoli, 3 luglio 2009
Gentilissimi,
Alla cortese attenzione di tutti coloro che sono a conoscenza delle violazioni del diritto d’asilo delle attuali politiche italiane dell’immigrazione:
A causa dell’attuale accordo tra Libia e Italia, che permette all’Italia di respingere gli immigrati in Libia, da dove sono partiti, sono stati respinte alcune centinaia di immigrati e rifugiati. Le autorità libiche li accolgono in condizioni inumane. Sono sottoposti a continui maltrattamenti fino a quando verrà presa qualche decisione sul loro destino, probabilmente la deportazione nella loro patria.
Alcuni di loro hanno urgente bisogno di una protezione internazionale, in qualsiasi luogo dove la loro richiesta possa essere seriamente esaminata dall’Acnur (Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite). In qualsiasi posto eccetto la Libia e, dopo il sei maggio, l’Italia.
Siamo riusciti a raccogliere informazioni sui detenuti respinti in Libia lo scorso 1 luglio 2009.
Abbiamo trovato 74 eritrei tra loro, tra cui 9 donne. Tutte le donne sono detenute a Zawiyah, e gli uomini a Zuwarah. Ci hanno detto di essere stati presi quando erano a circa 45 km (30 miglia) dalla costa italiana. Quando hanno saputo che li stavano riportando in Libia, dove sarebbero stati arrestati per altre torture, hanno vivamente protestato a bordo. Ma le proteste gli hanno solo procurato molti abusi fisici da parte delle forze navali italiane. Al punto che due di loro sono seriamente feriti, e altri sei hanno ferite minori. Sono tutti eritrei e hanno bisogno di una protezione internazionale. È un obbligo di tutti gli Stati firmatari della Convenzione di Ginevra del 1951. Sono stati respinti in Libia, ma dal momento che la Libia non ha firmato questo protocollo internazionale, e non ha una procedura nazionale sull’asilo, questi richiedenti non avranno mai una opportunità di chiedere asilo in Libia, altrimenti sarebbero a rischio di essere deportati nella loro patria, dove la loro vita è a rischio.
Stiamo seguendo gli sviluppi nei limiti delle nostre possibilità, nascondendo i nostri nomi e i nostri indirizzi dal momento che le autorità non accetterebbero le nostre richieste e questo potrebbe procurarci alcuni rischi per la nostra vita... siamo in un luogo dove non c’è libertà di parola né di protesta. Così ci auguriamo che le vostre rispettate organizzazioni guardino al tema dei richiedenti asilo nel modo più serio e urgente possibile. Gli eritrei hanno urgente bisogno di una protezione internazionale, dal momento in cui la loro emigrazione non è semplicemente economica, ma c’è qualcos’altro dietro, lo sappiamo.
Pertanto, includiamo qui la lista dei nomi degli Eritrei che sono stati respinti
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Cordiali saluti, un anonimo eritreo, Tripoli

Black list: dove la libertà religiosa non è ammessa

Il Governo degli Stati Uniti puntuale come ogni anno ha pubblicato la lista nera dei paesi che violano la libertà religiosa. Quest’anno sono 13 gli stati listati a lutto, ma altrettanti sono quelli che non soddisfano le garanzie richieste. La U.S Commission on International Religious Freedom, creata dalla legge sulla libertà religiosa internazionale del 1998, ha bocciato senza appello: il Myanmar, la Corea del Nord, l’Eritrea, l’Iran, l’Iraq, il Pakistan, la Cina, l’Arabia Saudita, il Sudan, il Turkmenistan, l’Uzbekistan, il Vietnam e la Nigeria. Proprio quest’ultimo è stato etichettato dalla commissione come "Paese particolarmente preoccupante" per la violenta espansione della “Legge islamica”, e si aggiunge agli altri 12 dove la libertà di religione viene violata regolarmente e in maniera sempre più grave. Sulla Birmania ha pesato la soppressione nel sangue delle dimostrazioni pacifiche dei monaci buddisti, per la Cina rimane scottante il problema del Tibet, in Arabia numerosi musulmani sciiti rimangono dietro le sbarre a causa del loro credo e le altre minoranze non sono tutelate. Il paese si trincera dietro il fatto di essere la terra sacra dell’islam e si paragona al Vaticano. Ma la commissione ha fatto notare che c’è un enorme differenza tra il piccolo stato cattolico con 800-900 residenti e lo stato saudita con 2-3 milioni di residenti non musulmani.
Buone notizie per il Bangladesh rimosso quest’anno dalla black list. Il Paese musulmano, con una storia di violenze contro le minoranze, specialmente induiste, ha visto le angherie diminuire durante le elezioni di dicembre. Il diritto di professare liberamente il proprio credo religioso è sempre più a rischio anche in Russia e in Turchia. Questi paesi insieme ad altri nove sono borderline, rischiano cioè di entrare nella lista nera, ma per il momento sono dei “sorvegliati speciali”. In Russia, la commissione ha trovato particolarmente criticabile "un nuovo corpo nel ministero della Giustizia con poteri senza precedenti per controllare e monitorare i gruppi religiosi". Il rapporto descrive anche "un incremento delle violazioni della libertà di religione da parte di responsabili governativi, in particolare contro gruppi religiosi "non tradizionali e musulmani". Il problema della Turchia è la sua interpretazione del secolarismo che si traduce "in numerose violazioni delle libertà di religione nei confronti delle minoranze religiose".
Il rapporto critica la sentenza costituzionale contro il velo islamico per le donne nelle università. Oltre a Russia e Turchia, la commissione ha aggiunto alla lista, Laos, Somalia, Tajikistan e Venezuela. Già da tempo figuravano invece l’Afghanistan, la Bielorussia, Cuba ed Egitto, perchè i loro governi o fanno discriminazioni religiose o non sono in grado di contenere le violenze religiose.
Il rapporto copre il periodo che va da Maggio 2008 ad aprile 2009.

lunedì 15 giugno 2009

TEATRO FORUM ALL'APERTO


VENERDI 19 GIUGNO IN VIA MAZZINI DI FRONTE ALLA CHIESA ALLE 21 : 45 INTERPETRAZIONE TEATRALE DI ROBERTO ALAJMO IN "LE CENERI DI PIRANDELLO"

giovedì 28 maggio 2009

CINEFORUM ALL'APERTO

VENERDI 29 MAGGIO ALLE 21 : 45 IN VIA MAZZINI VERRà PROIETTATO IL FILM I CENTO PASSI

lunedì 18 maggio 2009

La Storia delle cose Pt. 1

Bellissimo video ad animazioni dell'ambientalista Annie Leonard che espone, con una tecnica grafica molto accattivante, i grandi limiti dell'attuale sistema economico statunitense, ma le stesse tesi possono essere facilmente estese a tutte le economie moderne.
Una analisi sofisticata e contemporaneamente estremamente lineare, ti fa molto riflettere sull'attuale modello di ciclo economico dove la concatenazione di Estrazione > Lavorazione > Distribuzione > Consumo > Smaltimento non é tecnicamente sostenibile nel tempo e comporta inevitabilmente gravi conseguenze ecologiche, sociali, politiche e economiche.

La Storia delle cose Pt. 2

La Storia delle cose Pt. 3

ISOLE DI PLASTICA






Il New York Times dedica un servizio al suo successo silenzioso e alle polemiche LO CHIAMANO Pacific Trash Vortex, il vortice di spazzatura dell'Oceano Pacifico, ha un diametro di circa 2500 chilometri è profondo 30 metri ed è composto per l'80% da plastica e il resto da altri rifiuti che giungono da ogni dove. "E' come se fosse un'immensa isola nel mezzo dell'Oceano Pacifico composta da spazzatura anziché rocce. Nelle ultime settimane la densità di tale materiale ha raggiunto un tale valore che il peso complessiva di questa "isola" di rifiuti raggiunge i 3,5 milioni di tonnellate", spiega Chris Parry del California Coastal Commission di San Francisco, che è da poco tornato da un sopralluogo. Questa incredibile e poco conosciuta discarica si è formata a partire dagli anni Cinquanta, in seguito all'esistenza della North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale, prodotta da un sistema di correnti ad alta pressione. L'area è una specie di deserto oceanico, dove la vita è ridotta solo a pochi grandi mammiferi o pesci. Per la mancanza di vita questa superficie oceanica è pochissimo frequentata da pescherecci e assai raramente è attraversata anche da altre imbarcazioni. Ed è per questo che è poco conosciuta ai più. Ma proprio a causa di quel vortice l'area si è riempita di plastica al punto da essere considerata una vera e propria isola galleggiante. Il materiale poi, talvolta, finisce al di fuori di tale vortice per terminare la propria vita su alcune spiagge delle Isole Hawaii o addirittura su quelle della California. In alcuni casi la quantità di plastica che si arena su tali spiagge è tale che si rende necessario un intervento per ripulirle, in quanto si formano veri e propri strati spessi anche 3 metri. La maggior parte della plastica giunge dai continenti, circa l'80%, solo il resto proviene da navi private o commerciali e da navi pescherecce.
OAS_RICH('Middle');
Nel mondo vengono prodotti circa 100 miliardi di chilogrammi all'anno di plastica, dei quali, grosso modo, il 10% finisce in mare. Il 70% di questa plastica poi, finirà sul fondo degli oceani danneggiando la vita dei fondali. Il resto continua a galleggiare. La maggior parte di questa plastica è poco biodegradabile e finisce per sminuzzarsi in particelle piccolissime che poi finiscono nello stomaco di molti animali marini portandoli alla loro morte. Quella che rimane si decomporrà solo tra centinaia di anni, provocando da qui ad allora danni alla vita marina. che questo sta suscitando (link qui).

sabato 9 maggio 2009

C'è qualcosa di malato in noi

ARCI-ASKAVUSALampedusa
A Lampedusa si smontano i prefabbricati che dovevano "accogliere"(?) gli immigrati (Clandestini)(?) e costituire il Centro Identificazione ed Espulsioneche gli isolani hanno duramente contestato, si smonta perche i lavori sono stati riconosciuti abbusivi, si smonta perche non è vero che il governo fa quello che vuole, ci porova, ma se i cittadini intervengono in maniera decisa, riescono a sbloccare gli ingranaggi di una democrazia(?) arrugginitae al collasso.Ma mentre Lampedusa medita sul voto delle europee, del senso che la politica ha in questo scoglio in mezzo al mare più bello del mondo,mentre molti(me compreso) hanno già deciso di non votare per protesta, di rifiutare l'ultimo diritto rimasto a noi Lampedusani, il governo continua nella sua azione fuorilegge e disumana.I respingimenti di ieri però devono essere analizzati in un campo più ampio: una parte dell'Europa ha festeggiato ciò che è successo ieri, L'africa appare più lontana, le guerre, la fame, la mancanza di acqua, e tutte le altre piaghe che tormentano questo continente magnifico sembranosiano nate con l'Africa, non sento un dibbattito politico-culturale sui motivi che hanno ridotto l'Africa in questo stato, ogni tanto si sente qualche notizia che dovrebbe far riflettere, ad esempio che l'industria delle armi non risente la crisi, anzi è in espansione, i suoi profitticrescono, si moltiplicano, e questo anche nel nostro paese, (delle azioni di pace in medioriente)(?). Uno dei maggiori produttori di mine antiuomo.Non interessa a nessuno capire quello che si deve fare in Africa ?I conflitti per il controllo delle materie prime spesso sono alimentati dalle nazioni occidentali, cosi come fu fatto nascere il terrorismo in medioriente dall'America, ma vedete il male ritorna al mittente, è una legge inevitabile.Forse è il momento di mettere in discussione il sistema capitalistico-consumista che aliena l'uomo, lo disumanizza, lo rende privo di senso criticopauroso,che difende una fantomatica identità territoriale perche non ne ha una personale forte, ha bisogno di riconoscersi nei comportamenti degli altri, tutto ciò che è diverso lo può far cambiare(Migliorare ?)e questo lo escluderebbe dal meccanismo dei comportamenti rituali, impersonali,non televisivi.Abbiamo una grande opportunità, rivdere tutto alla radice, perche se siamo contenti di aver mandato centinaia di persone alla morte o peggio a torture e violenze, c'è qualcosa di malato in noi.Se aiutiamo la Libia a commettere crimini atroci C'è QUALCOSA DI MALATO IN NOI.Se a Milano ci saranno posti a sedere nei mezzi pubblici riservati ai milanesi c'è qualcosa di malato in noi.Se chi delinque non ha una pena adeguata al suo crimine c'è qualcosa di malato in noi.Se non proviamo almeno pietà(Rabbia)(?) per chi viene deportato in mare verso l'inferno c'è qualcosa di malato in noi.
Giacomo Sferlazzo.

martedì 5 maggio 2009

OPERAZIONE BRUSHWOOD: STORIA DI ORDINARIA REPRESSIONE

BRUSHWOOD: La lettera di Michele dal carcere Un anarchico in cattività'
Il Comitato 23 ottobre divulga la missiva di Fabiani. "Ero prigioniero anche prima... Sbagliano i marxisti"
Spoleto - 14/11/2007 12:26
"Sono Michele Fabiani, "detto Mec", come direbbero i giudici, eh eh. Vorrei che questo scritto girasse il più possibile, non so ancora se potrò fotocopiarlo o se dovrò ricopiarlo a mano per cercare di mandarlo il più possibile in giro. Dalla seconda media mi chiamano Mec perchè per spirito di contraddizione tifavo la Maclaren.... e così ho appena scoperto che di sfortune ne ho avute di 2 in 2 giorni: la macchina di Agnelli e Montezemolo vince i mondiali e io finisco in galera. Martedi 23 ottobre 5 brutti uomini (2 erano cosi' brutti che si sono messi il passamontagna) irrompevano in casa mia, la mettevano completamente sottosopra e mi arrestavano in base all'articolo 270bis (scritto dal ministro Rocco per Mussolini). I reati associativi come l'art. 270 bis e 270 permettono di arrestare qualcuno non per cio' che ha fatto, ma per come la pensa, perchè fa parte di qualche fantomatica associazione. Basti pensare che uno di noi 5, rinchiusi in isolamento giudiziario da quasi 4 giorni e da oggi in E.I.V., è accusato solo di aver fatto una scritta su un muro! Ci pensate? Tre volanti (a testa), i mitra, i passamontagna, la scorta aerea dell'elicottero, le telecamere, il carcere, l'isolamento, l'e.i.v., per una scritta su un muro! Sono poi stato portato alla caserma dei carabinieri di Spoleto e poi a quella di Perugia, infine da quella di Perugia al carcere. Il primo momento propriamente comico è stato il trasferimento tra la caserma di Perugia e il carcere: chi guidava la macchina, forse impressionato, si è sbagliato strada e abbiamo fatto 2 volte il giro intorno alla stazione ferroviaria. In carcere mi stanno trattando bene, non mi hanno mai toccato (in tutti i sensi, neanche per gli spostamenti). La cella è molto sporca, c'è un tavolo appeso al muro con un armadietto inchiodato ed un letto inchiodato per terra ed alla parete. Oggi è caduto l'isolamento e abbiamo anche la tv. Resta il divieto di comunicare tra noi, che è la cosa peggiore. Ho visto le immagini del TGR Umbria che eravate fuori durante gli interrogatori: eravate tanti! Sono stato tanto felice, purtroppo da dentro non vi abbiamo sentito. Ho risposto alle domande non perchè io riconosca un qualche valore alla magistratura, ma per il semplice motivo che nelle motivazioni del nostro arresto c'erano scritte talmente tante (omissis) che ho ritenuto importante contraddirle subito, pur senza essermi mai consultato con gli avvocati, per la corretta esposizione dei fatti, per la libertà di tutti noi. Talmente tante erano le falsità, le contraddizioni, gli errori grossolani che era di importanza strategica distruggerle immediatamente. Nessuno tema o si rallegri: io ero, sono e resto un prigioniero rivoluzionario. Lo ero, un prigioniero ed un rivoluzionario, anche prima di martedi: siamo tutti prigionieri, tutti i giorni. Quando ci alziamo la mattina per andare a lavorare, quando passiamo gli anni più belli della nostra vita sprecati su una macchina, quando facciamo spesa, quando non possiamo farlo perchè mancano i soldi, quando li buttiamo via i soldi per delle cazzate (vestiti, aperitivi, sigarette non c'è differenza) quando guardiamo la tv che ci fa il lavaggio del cervello, che cerca di terrorizzarci con morti, omicidi, rapine (quando in 15 anni gli omicidi sono diminuiti del 70%) così che noi possiamo chiedere piu' telecamere, piu' carceri, pene sicure, quando se c'è una pena davvero sicura a questo mondo è quella che incatena lo sfruttato alle sue condizioni. Io non ho mai detto "SONO UN UOMO LIBERO", in pochi possono dirlo senza presunzioni. Se io fossi un uomo libero, andrei tutti i giorni sulla cima del Monte Fionchi, in estate con le mucche e le pecore e in inverno con la neve, e dopo aver raggiunto faticosamente le cime...guardare a nord ovest, la valle Umbra o Valle Spoletino come si diceva una volta, poi a nord est la Valnerina e il Vettore quasi sempre liscio dietro, e poi via verso est tutti gli appennini che cominciano da lì, fino a sud dove ci sono quelle meravigliose foreste... E forse, ripensandoci, neanche lì sarei davvero libero. Perchè la valle Umbra è piena di cave, di capannoni, di fabbriche, di mostri che devono essere combattuti. Ma mancano gli eroi oggi mentre di mostri ce ne sono anche troppi. Quindi io non sono un uomo libero, il dominio non è organizzato per prevedere uomini liberi. Però sono un rivoluzionario, un prigioniero rivoluzionario. Io sapevo gia' di essere un prigioniero, prima che un giudice me lo dicesse. Certo, questa prigione è diversa da quella fuori: qui vedi tutti i giorni, in maniera limpida, simbolica e allo stesso tempo materiale quali sono i rapporti di forza del dominio; dove c'è chiaramente e distintamente l'uomo, con i suoi sogni, i suoi amori, il suo carattere, e il sistema, le sbarre, le catene, le telecamere, le guardie. Potremmo dire, ironicamente, che da un punto di vista politico-filosofico qui le cose sono piu' semplici: il sistema cerca di annientare l'individuo, l'individuo cerca di resistere. Ovviamente l'uomo qui sta peggio. E' inutile fare retorica. Dopo qualche giorno la gabbia te la trovi intorno alla testa, è come se avessero costruito un'altra piccola gabbietta, precisa precisa intorno alla tua testa. Con il cervello che ragiona ma non ha gli oggetti su cui ragionare, con la voglia incontenibile di parlare e non c'è nessuno, di correre e non c'è spazio, quando mi affaccio alla finestra vedo un muro con altre sbarre, non si vede un filo d'erba, una collina (neanche durante l'aria, che passo solo in una stanza piu' grande), fuori dalla tua gabbia c'è un altra gabbia. La mia paura è che questa sensazione mi rimanga anche quando esco. Che la lotta per non impazzire diventera' il fine della mia vita. Nel carcere "formale" l'uomo combatte contro se stesso, mentre nel mondo fuori il rivoluzionario deve combattere una guerra contro entita' oggettive. La mia paura è che ci si dimentichi di questi 2 livelli di scontro, che anche quando usciro' ci sarà questa gabbia intorno alla testa che mi ............ e mi dice di non prendere a calci la porta della cella e di mettermi ad urlare. Non solo l'uomo antropofizza il mondo, ma in galera l'uomo antropofizza anche se stesso: come distruggiamo le montagne, così qui distruggiamo la nostra mente, costruendo fantasmi contro cui scontrarci. Il rapporto è tutto mentale qui. E' di questo che voglio liberarmi, voglio uscire e continuare ad avere una capacità di analisi oggettiva della realtà. Qui questa capacità rischio di perderla. Mentre fuori, innaffiando un seme e facendo crescere una pianta, si ha un'interazione fisica con il mondo qui lo scontro è tutto psicologico. Lo scontro è fisico solo ad un primo livello, con i muri che non mi fanno uscire, ma in realtà la guerra è anche con i nostri fantasmi. I muri sono troppo materiali per essere reali. Sbagliano i marxisti quando riconducono tutto alla materia. La realtà è una sintesi in cui l'uomo colloca se stesso tra il mondo e le sue idee. In galera purtroppo questa sintesi è pericolosamente, patologicamente, troppo incentrata sulla mente. Ai compagni che scrivono che non trovano parole dico di trovarle queste parole che ne abbiamo troppo bisogno. Scriveteci a tutti e 5! Vorrei che qualcuno dicesse ad Erika che le mando un bacio.
Mec, Un anarchico in cattivita' 26/10/07"

PER NON DIMENTICARE!!!

Michele Fabiani, nato il 16 febbraio 1987, è un giovanissimo anarchico e filosofo di Spoleto (Perugia). Ha frequentato il liceo scientifico Alessandro Volta, impegnandosi nel movimento studentesco spoletino e anche, sin dall' adolescenza (14-15 anni), nel movimento anarchico e nel sostegno al prigioniero comunista Paolo Dorigo, allora detenuto proprio a Spoleto. I suoi scritti sono comparsi inizialmente su anarcotico.net, dove veniva pubblicato un foglio telematico intitolato "Il Rivoluzionario". Successivamente per una serie di incomprensioni con la redazione del sito si è trasferito su anarchaos, dove sono stati pubblicati numerosissimi suoi articoli, saggi e commenti. Michele è attivo anche nell'Associazione Vittime armi elettroniche-mentali, nelle lotte anticarcerarie e nell'elaborazione di nuove teorie anarchiche.
Dall'età di 14 anni ha studiato, da autodidatta, autori come Stirner, Heidegger, Goethe, Nietzsche, Bakunin, Hegel, Platone, Bonanno ecc. Il Razionale e l'Assurdo è la sua prima opera, scritta tra il gennaio e l'aprile 2005, a soli 18 anni.
Il 23 ottobre 2007, insieme ad altri 4 compagni-amici di Spoleto (Andrea Di Nucci, Dario Polinori, Damiano Corrias e Fabrizio Reali Roscini), è stato arrestato nella cosiddetta "Operazione Brushwood" (operazione boscaglia) con l'accusa di far parte di una cellula anarco-insurrezionalista denominata COOP-FAI (Contro ogni ordine politico – Federazione Anarchica Informale).
Il 18 luglio 2008, a Michele Fabiani sono stati concessi i domiciliari. Il 26 settembre Michele è stato messo in semilibertà, con obbligo di dimora nel comune di Spoleto e di rientro notturno dalle 21 alle 7. Dal 26 novembre 2008 il Mec (come lo chiamano gli amici) è finalmente libero. Nel frattempo (il 29/09/2008) Michele, Andrea, Dario e Daminao sono stati rinviati a giudizio; il processo è cominciato il 7 aprile presso la coste di assise di Terni, non vi partecipa Fabrizio poiché la sua posizione è stata stralciata.

lunedì 4 maggio 2009

Così i libici fermano i gommoni

Da La Repubblica
di Franco Viviano
RAS AJDIR (Libia) - Partono anche di giorno rischiando di essere arrestati, imprigionati e trattati come schiavi. Ma ci provano lo stesso e pagano anche di più perché i trafficanti libici di esseri umani stanno seminando il panico nelle sperdute campagne vicino al mare dove, dentro i capannoni, sono ammassati migliaia di nigeriani, sudanesi, eritrei, etiopi da mesi in attesa di partire per Lampedusa. "Adesso o mai più, tra poco Italia e Libia faranno dei pattugliamenti qui e sarà più difficile partire...", avvertono i trafficanti e molti disperati ci credono sul serio, pagano e partono, anche davanti ai bagnanti che prendono il sole sulle spiagge di Zaltan e Al Zuwarah, i primi due paesi libici che si incontrano una volta lasciato il confine tunisino: le spiagge da dove partono molti degli extracomunitari che arrivano a Lampedusa o a Malta. La nostra guida è un clandestino che ormai da anni vive in Libia e sa districarsi bene tra poliziotti tunisini e militari libici che lo conoscono bene perché fa il contrabbandiere e sa come oliare gli ingranaggi. Lui fa avanti e indietro tra Zaltan e Al Zuwarah. "Io non traffico con i clandestini, faccio contrabbando e basta, e quando posso li aiuto", dice, anche se il suo "aiuto" consiste nel portare, per conto dei trafficanti libici, acqua e generi alimentari nelle fattorie piene di extracomunitari. "Sono migliaia e migliaia, c'è un ricambio continuo, tanti partono, tanti arrivano". La guida ha girato un video col telefonino. "Guarda, guarda, ti possono interessare", dice prima di cliccare sul cellulare per mostrare il filmato. Non è un trucco, è tutto vero. "Le ho girate pochi giorni fa - racconta - ecco, adesso partono anche di giorno". Sono immagini uniche: in Libia è difficile muoversi, i militari di Gheddafi non scherzano, e alcuni di loro sono proprio gli organizzatori degli arrivi e delle partenze degli extracomunitari. Li sfruttano, li fanno lavorare come schiavi per mesi, anche per anni, e poi il misero stipendio che quei disperati guadagnano ritorna nelle loro tasche per pagare il viaggio in mare dalla Libia a Lampedusa. E come in tutte le organizzazioni ci sono clan concorrenti, gruppi di trafficanti che si accaparrano con la complicità di militari e poliziotti libici la "carne umana" da buttare in mare.
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Il video, anche se girato con il telefonino è chiarissimo. È stato registrato poche settimane fa, tra la fine di marzo e l'inizio d'aprile. La spiaggia è sempre quella, Al Zuwarah, poco dopo le dieci del mattino. Da dietro le dune di sabbia spunta un gommone nero di sei, sette metri, viene buttato in mare davanti a decine e decine di bagnanti libici che prendono il sole. Improvvisamente arrivano una settantina di uomini ("neri", così li chiamano i libici), corrono sulla spiaggia e poi in acqua per salire sul gommone. Si affollano, si stringono, ci sono donne, bambini ed uomini, con loro portano soltanto qualche piccola cosa, una Bibbia o un Corano e, chi può, gli ultimi spiccioli che gli sono rimasti. Lo scafista è con loro, li aiuta a salire e a spingere il gommone in mare, dove a bordo ci sono anche una decina di taniche di plastica piene di benzina per affrontare il lungo viaggio. Benzina che spesso fuoriesce dai bidoni e, mescolandosi con l'acqua di mare, provoca ustioni anche gravissime. Si parte verso Lampedusa, l'isola della speranza, "la porta della vita" la chiamano in molti. Alcune ore dopo la partenza del primo gommone eccone un altro che spunta all'improvviso come il primo sulla spiaggia dove donne e bambini libici giocano con la palla o fanno castelli di sabbia. Nessuno si scompone, da quella spiaggia ne hanno visti partire a centinaia e qualcuno, mosso da pietà, li saluta pure mentre prendono il largo. Ma questo secondo viaggio ha un imprevisto. All'improvviso spunta una jeep con a bordo tre o quattro militari libici. Due di loro scendono armati di mitra e si dirigono verso il punto dove il secondo gommone sta per partire. Una cinquantina sono già a bordo, altri stanno per salire. I militari scendono in mare, l'acqua è bassa e gli arriva alle ginocchia, uno spara un colpo sul gommone per farlo afflosciare, l'altro intima a tutti di scendere e minaccia di sparare sotto gli occhi dei bagnanti. Sul gommone si scatena il caos, i clandestini si buttano nuovamente in mare e tentano la fuga guadagnando la spiaggia da dove erano venuti. I militari sparano ancora in aria per fermarli: molti riescono a scappare, altri no, come il presunto "pilota" del gommone che viene bloccato dai militari mentre il trafficante libico va via tranquillamente, pronto ad organizzare un'altra partenza di disperati. Quelli che erano partiti qualche ora prima ormai sono ad alcune migliaia di distanza dalle coste libiche, il tempo è buono e il mare forza 2-3. Si dirigono verso i fari delle piattaforme petrolifere e seguono una rotta che è decisa dalle onde del mare e dal vento. Qualcuno più anziano, di giorno sta con gli occhi puntati al cielo e dice al pilota di seguire la stessa strada degli uccelli che migrano dalle coste africane per raggiungere anche loro Lampedusa: sono stormi di gruccioni, balie nere. Ma gli uccelli vanno veloci e tranquilli e spariscono presto dal cielo. La speranza però non svanisce ed un giovane somalo avvista una motovedetta della marina militare italiana che si avvicina. Ce l'hanno fatta. Non come tanti altri morti durante il viaggio e scomparsi nel cimitero del mare.
(4 maggio 2009)

COMITATO NO CIE - Nota stampa

Iniziato lo smantellamento del nuovo Centro per immigrati di Ponente a Lampedusa.

Sono iniziati sabato scorso i lavori per la demolizione del nuovo centro per immigrati presso la Stazione Loran di Ponente a Lampedusa.
La costruzione del CIE di Ponente era infatti avvenuta in assenza dei preventivi pareri e nulla osta necessari sulla base del regime vincolistico vigente nell’area.
Le opere erano state denunciate come abusive durante la mobilitazione contro i nuovi provvedimenti del Ministro Maroni in materia di immigrazione.
Nel corso della Conferenza di Servizi attivata per la valutazione della legittimità del nuovo centro, il Viminale ha dovuto prendere atto dell’abuso commesso, dell’impossibilità di sanare le opere realizzate e della necessità di procedere al ripristino dei luoghi.
Si tratta di un risultato di civiltà ottenuto anche grazie all’impegno e alla continua mobilitazione dei cittadini di Lampedusa. Quei cittadini che non si sono mai arresi e che continueranno a tenere alta l’attenzione su quanto accade nella loro isola.
Pertanto continuerà la raccolta di firme volta ad ottenere che il Centro di Imbriacole, attualmente destinato a centro di identificazione ed espulsione, torni ad essere quel Centro di primo soccorso ed accoglienza che dal 2006 era diventato “fiore all’occhiello” per l’Europa intera.
Rimane l’amara constatazione sull’enorme spreco del denaro di noi contribuenti che il governo ha perpetrato per costruire strutture che oggi vengono demolite. Per di più in un’isola dove si fanno i doppi turni a scuola e si rimane isolati dalla terraferma per settimane, dove neanche un soldo è mai stato speso per realizzare strutture per lo sport e la cultura e nulla si fa per incrementare pesca e turismo, le uniche risorse economiche che garantiscono la sopravvivenza dell’intera comunità delle Pelagie.

Lampedusa, 4 maggio 2009


domenica 3 maggio 2009

Più sbarchi in Italia. Ecco le rotte dell’immigrazione

Di Giampaolo Musumeci
Crescono gli sbarchi dei migranti in Italia. Aumentano i controlli, e così cambiano le rotte. E vedremo che cosa gli annunciati pattugliamenti congiunti Italia Libia, che dovrebbero partire a metà maggio, potranno fare. La Libia è infatti, insieme con la Tunisia, uno dei punti di partenza più sfruttati alla volta dell’Europa e del nostro paese. Ma la geografia dell’immigrazione è mutevole ed elastica. I dati comunicati dal prefetto Mario Morcone: nei primi quattro mesi dell’anno sono arrivati in Italia 6.300 migranti, il 75% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno quando furono 3.600 (nel 2008, in in tutto 37mila irregolari). Lampedusa continua ad essere la meta d’elezione, data la sua posizione strategica. Ma ci sono nuove rotte destinate ad assumere sempre più importanza: quella verso la Sardegna (dove, negli ultimi dodici mesi, su un totale di 665 sbarchi in tutta la penisola, se ne sono registrati ben 110) e verso la Calabria, nel tentativo di evitare i guardacoste italiani. Partendo sempre più spesso anche dall’Egitto, da piccoli e grandi porti come quello di Burg Mghizil o di Alessandria. I tratti di mare però si allungano e i pericoli anche. Le barche utilizzate sono malconce, i fuoribordo spesso cedono in mezzo al mare lasciando decine di persone senza cibo né acqua e in balia delle onde.
C’è poi la Grecia, paese di transito, e non di destinazione per la maggior parte dei migranti. È uno degli stati che meno concede asilo politico in Europa, benché sussistano oggettive condizioni. La media è attorno all’1% dei richiedenti. Così si passa dalla penisola ellenica per arrivare in Italia o proseguire per la Francia. Una delle rotte più battute dai migranti, soprattutto afgani e iracheni, è quella che parte dalla costa turca, dalla piccola Dogan Bay per esempio, per arrivare alle isole di Samo o Mitilini che distano pochi chilometri. I pattugliamenti turchi nella zona esistono solo sulla carta, dato che il guardiacoste spesso riceve la sua parte dal trafficante. E la polizia greca non dispone di mezzi sufficienti. Così, in migliaia ogni anno approdano sulle isole greche per poi riversarsi ad Atene, e di lì a Patrasso o Igoumenitsa, i due porti di partenza per l’Italia: Bari, Ancona, Venezia, che raggiungono nascosti nei camion o legati ai semiassi dei tir.
I pattugliamenti di Frontex (l’agenzia europea che si occupa del controllo delle frontiere) in collaborazione con alcuni paesi africani come la Mauritania o il Marocco hanno poi frenato almeno in parte la crescita della rotta atlantica. Da Nouadhibhou in Mauritania, ma anche dal Senegal, da Saint Louis o addirittura da Dakar si parte con piroghe di legno di una decina di metri alla volta delle Canarie. Il viaggio può durare anche una settimana. Ed è rischiosissimo, l’oceano non perdona. Nemmeno i leggendari pescatori senegalesi, i migliori conduttori di piroghe del mondo, quelli che onde di dieci metri non spaventano. Le statistiche, o meglio le ipotesi di statistiche, spesso impossibili da verificare, parlano di una piroga su cinque che si inabissa tra i flutti dell’Atlantico. Sempre dal Marocco, ora che Ceuta e Melilla, le due “enclave” spagnole sono blindatissime, e dopo che nel 2005 la Guardia Civil sparò sui migranti che tentavano di scavalcare le reti, facendo almeno tre morti, si tenta di arrivare in Spagna via mare. Si punta all’Andalusia, ad Almeria, su piccoli cayucos.
E poi c’è la parte più nascosta dell’immigrazione, quella dell’entroterra africano: difficile da monitorare, impossibile da controllare. Decine di migliaia di africani che premono sul Maghreb per poter raggiungere l’Europa. E la mafia dei “passeur”, dei trafficanti, quella, è transazionale e fa cifre da capogiro. Un migrante che parte dal centroafrica arriva a spendere migliaia di euro, indebitandosi, vendendo la casa, finendo a lavorare in condizioni di schiavitù. Può impiegare anni ad arrivare in Europa. Perdendosi nel deserto, finendo bloccato in Libia o Niger, arrestato in Tunisia. Ogni tappa del viaggio ha il suo costo e la sua tariffa. E tutto parte con un semplicissimo passaparola, dal centro di Bamako o Dakar o Ouagadougou. Poi, una telefonata, e scatta la rodata macchina dei trafficanti: i camion nel deserto da Agadez, i tuareg con i loro fuoristrada, i kalashnkikov e i telefoni satellitari. Fino alle coste e ai punti di partenza, libici e tunisini, dove altri trafficanti sono pronti a prendere in consegna i migranti. E a farsi pagare per aprir loro le porte di tuguri, dove dormire e nascondersi fino al fatidico giorno in cui si partirà per l’Europa. Rischiando nuovamente la vita. E ci sarà sempre qualcuno pronto a guadagnarci.

giovedì 30 aprile 2009

ED ANCHE IL VIMINALE NE PRENDE ATTO!!!

VIMINALE, NESSUN AMPLIAMENTO CIE LAMPEDUSA
ROMA, 30 APR - Non ci sarà l'ampliamento del Centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa. Dopo il parere negativo della Conferenza dei servizi, che si è tenuta ieri a Palermo, il Dipartimento libertà civili del Viminale ha disposto la chiusura del cantiere aperto per i lavori di ampliamento del Cie, il ripristino dello stato dei luoghi e l'utilizzazione dei soli manufatti preesistenti. Continua, pertanto, la normale attività del Centro di identificazione ed espulsione nella struttura originaria dell'ex Base Loran, zona ponente dell'isola, funzionante già dal 21 gennaio nel fabbricato in muratura realizzato nei primi anni '70. La richiesta di parere proposta nella Conferenza di servizi riguardava, infatti - come riferisce il Viminale - un eventuale ampliamento del numero dei posti da rendere operativo mediante la messa in opera di fabbricati leggeri ancorati su piattaforme di cemento preesistenti, realizzati a suo tempo in funzione di campi da tennis ed eliporto. A tale fine era stato allestito un cantiere, in attesa delle determinazioni della Conferenza di servizi, di cui ora è stata disposto lo smantellamento. (ANSA).

ORDINANZA DI DEMOLIZIONE PER IL C.I.E.!!!!

Per il comune di Lampedusa, sarebbe abusiva una parte del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) per immigrati clandestini di contrada Ponente. È emerso durante la conferenza dei servizi, svoltasi ieri sera alla prefettura di Palermo, fra i rappresentanti del Comune di Lampedusa, quelli della soprintendenza di Agrigento, degli assessorati regionali al territorio e ai beni culturali e della forestale e dei funzionari del ministero dell'Interno. La conferenza era stata organizzata affinchè i rappresentanti istituzionali presenti esprimessero i pareri preventivi sulle opere da realizzare per adeguare il Cie. Ma il dirigente dell'Ufficio tecnico di Lampedusa Giuseppe Gabriele ha detto che i pareri preventivi erano inutili, considerato che le opere erano state già realizzate dal ministero dell'Interno. I rappresentanti degli enti non si sono quindi espressi. «Il Comune di Lampedusa - ha detto il sindaco Dino De Rubeis - che ha sempre sostenuto che i 300 metri quadrati di opere realizzate nell'ex base militare Loran erano abusive adesso dovrà emettere una ordinanza di demolizione. Il comandante della polizia municipale Elio Desiderio quattro giorni fa ha denunciato alla procura per abusivismo edilizio i due tecnici ai quali il ministero aveva affidato il riadattamento dell'ex base Loran con pannelli e container premontati».

IMMIGRATI: ABUSIVO CIE DI LAMPEDUSA, TECNICI DENUNCIATI

Il centro di identificazione ed espulsione di contrada Ponente di Lampedusa e' abusivo. E' quanto emerso, secondo quanto risulta all'Agi, dalla conferenza di servizi che si e' svolta in prefettura ad Agrigento e alla quale hanno preso parte rappresentanti del Comune di Lampedusa ,della Soprintendenza, del Genio civile, degli assessorati regionali al Territorio e ai Beni culturali e della Forestale. Si e' trattato della terza riunione convocata per dare i pareri preventivi previsti dalla legge. Ma il Comune di Lampedusa ha fatto presente che, secondo una denuncia presentata dal Comando dei vigili dell'isola, la struttura non e' regolare perche' si chiedono autorizzazioni preventive per un edificio gia' esistente. Le autorizzazioni, semmai, dovevano essere chieste prima dei lavori di riadattamento della caserma. Secondo quanto si e' appreso, i vigili urbani di Lampedusa avrebbero anche denunciato i due professionisti romani ai quali il ministero si e' affidato per realizzare i lavori di riadattamento della ex base Loran a Cie.

mercoledì 29 aprile 2009

RAPPORTO ONG SU LAMPEDUSA,VIOLAZIONI ECLATANTI

PARIGI, 28 APR - «Violazioni eclatanti del diritto italiano, europeo e internazionale in materia di immigrazione»: è la principale conclusione del rapporto della Rete euromediterranea dei diritti umani (Remdh), presentato stamattina a Parigi. Nel rapporto emergono «chiaramente i gravi disfunzionamenti», diretta conseguenza «della decisione del governo italiano di trasformare Lampedusa in un luogo di detenzione degli immigrati e di coloro che chiedono asilo». Vengono denunciate «condizioni sanitarie inaccettabili», come la distribuzione di «pasti monotoni» e di «kit sanitari» adatti solamente a «soggiorni di qualche giorno». Le prestazioni sanitarie non sarebbero all'altezza delle patologie di lungo termine e dei «problemi psicologici che si verificano nell'universo della detenzione». Viene anche giudicata insufficiente la presenza di due sole ambulanze e di un ambulatorio che funziona una volta alla settimana. Il rapporto raccomanda «urgentemente» alle autorità italiane di mettere fine alle espulsioni e alla detenzione degli immigrati, di lasciarli partire verso altri centri di accoglienza dopo il primo periodo a Lampedusa. E, «a medio termine», di abrogare il decreto del 26 gennaio che intende stabilire nell'isola un Centro di identificazione e espulsione (Cie). Il rapporto è il risultato della missione di sei membri della Remdh, che si è svolta a Lampedusa dal 25 al 27 febbraio scorso. L'iniziativa è partita dalla Federazione dei Tunisini per la cittadinanza delle due Rive (Ftcr), preoccupata per le condizioni degli immigrati tunisini che approdano nell'isola.

lunedì 27 aprile 2009

Nave PINAR: Malta aveva ragione (e l'Italia torto!)


MALTA, ACCORDO CON ITALIA SU SOCCORSI IN MARE
(ANSAmed) - LA VALLETTA, (MALTA) 27 APR - Tutti gli immigrati soccorsi in mare saranno trasferiti verso «il porto più vicino e sicuro». È questo l'accordo, secondo quanto si apprende da fonti vicine al governo di La Valletta, raggiunto tra Italia e Malta dopo il braccio di ferro sulla nave Pinar e su dove devono essere portati i clandestini recuperati in mare. Le trattative, sostengono le fonti, sono state condotte a Varsavia, dove ha sede Frontex (l'agenzia europea per il controllo delle frontiere), negli ultimi giorni e si sono sbloccate dopo il colloquio, giovedì a Bruxelles, tra il ministro maltese Carmelo Mifsud Bonnici e quello italiano Roberto Maroni. L'intesa prevede anche che a partire da questa settimana inizieranno i pattugliamenti congiunti nel Mediterraneo, sotto la guida di Frontex. Si tratta della missione denominata 'Nautilus IV', che sarebbe dovuta partire in realtà il 1 aprile. Sarà Frontex, sostengono sempre le fonti maltesi, a coprire tutte le spese dei pattugliamenti che vedranno impegnati oltre alle marine e le forze aeree d'Italia e di Malta, anche quelle di Francia, Grecia, Spagna, Germania, Lussemburgo e Finlandia. La copertura finanziaria è di circa 10 milioni di euro. La missione, sostiene Malta, sarà coordinata da un centro di operazioni a La Valletta dove sarà presente anche un pool di esperti dell'Ue, che assisteranno alle operazioni.

lunedì 20 aprile 2009

LAMPEDUSA, FRONTIERA DEI DIRITTI NEGATI

Giovedì 23 aprile, ore 21, Piazza Commendatore Brignone
Manifestazione pubblica promossa da Arci, Associazione Askavusa e dal Comitato cittadino NO C.I.E.

In collaborazione con le reti internazionali Flare e Migreurope
e col patrocinio del Comune di Lampedusa

Concerto di Assalti Frontali, Villa Ada Posse, Esa, Willy Valanga
Interviene il giornalista Gad Lerner


Lampedusa rappresenta l’ultima frontiera dell’Europa del sud, la prima porta per chi arriva dall’Africa. In troppi casi la speranza di raggiungere questo lembo di terrà è naufragata nel mare che lo circonda, tanto da trasformare il canale di Sicilia in un cimitero a cielo aperto, sul fondo del quale giacciono migliaia di corpi senza nome.

In altri casi, per chi ce l’ha fatta a raggiungere l’isola, l’approdo ha determinato detenzione, privazione dei diritti fondamentali, espulsione.

Lampedusa si è via via trasformata in una fortezza militarizzata, dove anche i suoi abitanti soffrono l’isolamento cui è stata costretta, privi di molti servizi essenziali, di una sanità dignitosa, di trasporti efficienti.

Tutto ciò potrebbe trovare soluzione se le politiche migratorie nel nostro paese investissero sull’integrazione anziché sulla repressione, con una legislazione che consentisse l’ingresso legale nel nostro paese, mettendo fine a traffici illeciti e sfruttamento e liberando risorse da investire per migliorare le condizioni di vita di chi vive o arriva sull’isola.

Di questo i lampedusani hanno acquisito consapevolezza e con le associazioni del luogo hanno promosso una petizione popolare per chiedere che nessun CIE venga realizzato nelle Pelagie; che sull’isola ci sia solo un centro di soccorso e accoglienza dove i migranti restini solo il tempo necessario per essere avviati nel percorso loro assegnato; che nessuna struttura destinata all’accoglienza venga aperto presso la ex base Loran; che il governo destini le risorse per risolvere i problemi degli abitanti; che si apra un Tavolo di consultazione permanente con la popolazione sulle decisioni che riguardano le strutture dell’isola.

Per sostenere i contenuti della petizione e la raccolta firme, l’Arci, l’associazione Askavusa e il Comitato cittadino NO CIE hanno organizzato un’iniziativa pubblica il 23 aprile a Lampedusa, che si concluderà con il concerto “Pass the mic pt.2…009” di Assalti Frontali, Villa Ada Posse, Esa, Willy Valanga. L’evento ha il patrocinio del Comune e si tiene in collaborazione con le reti internazionali Flare e Miogreurope.

domenica 19 aprile 2009

COMUNICATO STAMPA: CASO DELLA NAVE MERCANTILE PINAR: LA NUOVA CAP ANAMUR?


Assistiamo indignati alla decisione assunta dal governo italiano di rifiutare da giorni l’accesso alle acque territoriali italiane del mercantile turco “Pinar” che ha salvato dal naufragio 154 immigrati, e rifugiati, e che è ancora bloccato a venti miglia a sud di Lampedusa, con a bordo decine di feriti e il cadavere di una donna morta durante la traversata. Il comandante continua a lanciare richieste di aiuto sempre più pressanti ma le autorità italiane, al pari di quelle maltesi, rifiutano l’ingresso nelle acque territoriali. Esattamente come nel caso della nave tedesca Cap Anamur, nel 2004, i cui responsabili sono ancora oggi sotto processo ad Agrigento. Decisioni del governo italiano, come quelle assunte nel 2004, che continueranno a dissuadere in futuro le navi mercantili da interventi di salvataggio e saranno oggettivamente causa di altri morti e di altri dispersi. L'Italia deve dare accoglienza ai migranti salvati dal mercantile “Pinar”. Se, infatti, il mercantile dovesse essere fatto proseguire per la Tunisia, sua destinazione, con i migranti ancora a bordo, si realizzerebbe un respingimento collettivo, vietato da tutte le convenzioni internazionali.I migranti salvati dal “Pinar” hanno diritto di sbarcare subito in un posto sicuro, che, secondo quanto prescrivono le Convenzioni internazionali che Malta e l’Italia hanno sottoscritto, non è necessariamente quello più vicino.
A tutti i migranti salvati dalla “Pinar”, che hanno affrontato questo drammatico viaggio verso l’Europa per richiedere protezione internazionale, dovrebbe essere garantita la possibilità di presentare una richiesta di asilo.
La Convenzione SAR del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare, senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro. Nel 2006 con le modifiche alle convenzioni internazionali sul salvataggio in mare e con le linee guida - adottate dall’Organizzazione marittima internazionale (IMO) - viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di luogo sicuro e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio. Ma il governo maltese non ha ancora ratificato questi ultimi accordi con la conseguenza che tra Italia e Malta, sulla pelle dei migranti, è in corso una partita truccata, perché ognuno invoca regole diverse. E tutti e due i paesi ignorano le più elementari istanze di umanità.
Il porto sicuro verso il quale deve fare rotta al più presto la nave “Pinar” può essere soltanto un porto italiano, dopo che le ultime relazioni del Consiglio d'Europa hanno confermato le gravi violazioni dei diritti umani a danno dei migranti in Tunisia ed in Libia.
Neppure ha senso invocare l’intervento di FRONTEX - agenzia per il controllo delle frontiere esterne - come sta facendo in queste ore il ministro Frattini. FRONTEX e i pattugliamenti congiunti non risolvono il problema del salvataggio delle vite umane a mare, come ben dovrebbe sapere il ministro, ma sono finalizzati al respingimento delle imbarcazioni cariche dei migranti verso l’inferno libico dal quale sono partiti.
La controversia diplomatica tra Italia e Malta non può comportare in alcun modo il verificarsi di fatti sconcertanti come il palleggiamento di responsabilità tra due stati, con il rischio gravissimo di compromette la vita e la sicurezza dei naufraghi.
La tutela della vita e della sicurezza delle persone, ed il rispetto del diritto d’asilo costituiscono principi cardine dell’ordinamento giuridico nazionale e comunitario.

Per tali ragioni l’Asgi, la CGIL Agrigento, Amnesty International Agrigento, Borderline Europe e Fortresseurope
- richiamiamo il governo italiano alle sue responsabilità ed ai suoi obblighi di salvataggio, consentendo l’immediato accesso al territorio italiano della nave Pinar, al fine di procedere, nel più breve tempo possibile, alle operazioni di soccorso;
chiediamo alla Commissione Europea e al Parlamento Europeo un immediato intervento per regolamentare in futuro questa materia, a partire dalle riformulazione delle missioni Frontex in funzione di salvataggio della vita umana con riferimento all’ingresso dei richiedenti asilo.

Firmatari
A.s.g.i. (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), C.G.I.L. Agrigento- Social Help, Amnesty International Agrigento, Borderline Europe, Borderline Sicilia e Fortresseurope

Info
Prof. Fulvio Vassallo Paleologo (Asgi)
348.3363054 fulviovassa@tin.it
Avv. Leonardo Marino (C.G.I.L. Social Help Agrigento)
328.6296334 avv.leonardomarino@gmail.com
Dott.ssa Germana Graceffo (Borderline Sicilia)
331.2048044 ger.gra@libero.it

Da Lampedusa un urlo di civiltà!


sabato 18 aprile 2009

La nave che nessuno vuole

Da La Repubblica.it di sabato 18 aprile 2009

Pinar, alta tensione con Malta
L'armatore: "Situazione tragica"

"La situazione è tragica. Ci servono coperte e acqua non potabile: le cisterne sono ormai vuote". lancia un grido d'allarme Baris Erdogdu, armatore del mercantile turco Pinar fermo da giorni in acque internazionale e al centro di un braccio di ferro diplomatico tra Malta e Italia per la destinazione finale di 154 extracomunitari che erano stati soccorsi dall'equipaggio e presi a bordo. Il governo italiano sollecita Malta a intervenire "di fronte alla grave emergenza umanitaria verificatasi a bordo". Intanto continuano gli sbarchi di immigrati in Sicilia. Il Pinar. Il mercantile turco è fermo a 25 miglia a sud di Lampedusa, al limite delle acque territoriali italiane. Tra i migranti presi a bordo del Pinar ci sono 37 donne, due incinte, e una quarantina di minori. Il corpo senza vita di una donna incinta, che era sul barcone soccorso, è stato sistemato su una scialuppa. Le 152 persone si trovano sul ponte del mercantile, perché le stive sono piene di grano, e quindi non sono al riparo dal vento e dalle intemperie. Medici a bordo. Parlando via radio col comandante della nave l'armatore ha saputo che una quarantina di persone stanno molto male. Intanto sulla nave è giunta l'equipe medica, partita da Catania con un elicottero, che visiterà nuovamente i migranti. Frattini. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, si legge in una nota della Farnesina, "ha impartito già ieri istruzioni all'ambasciatore italiano a Malta, Andrea Trabalza, di compiere passi al massimo livello per sollecitare un adeguato intervento da parte delle Autorità della Valletta". Frattini, prosegue la nota, ha "allo stesso tempo rivolto all'Unione Europea un pressante appello affinché l'Agenzia Europea per la gestione ed il controllo delle frontiere esterne (Frontex) assolva con la necessaria rapidità ed efficacia agli impegni che le sono propri, ed assicuri una soluzione urgente ad una dolorosa questione che non può che travalicare l'ambito bilaterale italo-maltese, e piuttosto investe in pieno le competenze e le responsabilità dell' intera Unione". Ieri l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) aveva rivolto un appello all'Italia e a Malta affinché consentano lo sbarco dei 154 immigrati.

domenica 12 aprile 2009

Qualcuno ci può, cortesemente, far sapere cosa accadrà il 26 aprile?

SICUREZZA: MANTOVANO, 700 CLANDESTINI LIBERI SOLO A LAMPEDUSA (ANSA) -
ROMA, 8 APR - «Dei 1.038 clandestini che verrebbero liberati alla data di scadenza del decreto, 700 sono solo a Lampedusa. A questi, chi pagherà il taxi per lasciare l'isola? I parlamentari che oggi hanno votato per sopprimere la norma che prolungava la loro detenzione nei Cie?». Il sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano, sintetizza così l'emergenza clandestini che si potrebbe creare in Italia, e in particolare a Lampedusa, se questa norma non verrà approvata in tempi rapidi. «La proposta avanzata dal ministro dell'Interno di provare ad inserire nuovamente questa misura che prolunga il periodo di detenzione nei Cie nel decreto che ora dovrà passare all'esame del Senato, mi sembra davvero l'unica soluzione possibile» osserva Mantovano. «Il tempo ci sarebbe, perchè il decreto, secondo i calcoli del ministero, dovrebbe scadere il 26, e anche se alla Camera la settimana dopo Pasqua sarà di vacanza, al Senato invece si lavorerà». (ANSA). BSA/FV 08-APR-09

martedì 31 marzo 2009

Dal "Corriere della sera" di oggi, 31 marzo 2009

BASTA LAMPEDUSA, CLANDESTINI DIROTTATI A PORTO EMPEDOCLE

Il ministro Maroni: «Dal 15 maggio sarà operativo l'accordo siglato con i libici e gli sbarchi finiranno»
ROMA — Evitare Lampedusa. Il mare in burrasca non ferma l'arrivo di centinaia di immigrati e il ministero dell'Interno mette in atto il nuovo dispositivo che prevede di «dirottare» a Porto Empedocle i mezzi soccorsi al largo. Chi riesce ad aggirare i controlli e approdare sull'isola siciliana deve essere invece trasferito nella struttura di Isola Capo Rizzuto, trasformata un mese fa in centro di identificazione ed espulsione. Le decisioni, prese in sede riservata durante il comitato per l'ordine e la sicurezza del 12 marzo scorso, sono operative. Alla riunione di una settimana fa presieduta dal ministro dell'Interno Roberto Maroni aveva partecipato anche il comandante generale delle Capitanerie di porto Raimondo Pollastrini. A lui il titolare del Viminale aveva affidato il compito di comunicare le ultime direttive alle motovedette impegnate nel pattugliamento del canale nel tratto che separa l'Italia dalle coste africane.
Ieri Maroni ha ribadito la «certezza che dal 15 maggio, quando sarà operativo l'accordo siglato con i libici, gli sbarchi finiranno». Ma si tratta più che altro di una speranza, non c'è alcuna certezza che le autorità di Tripoli consentano davvero ai poliziotti italiani di partecipare ai controlli di fronte alle loro coste. E dunque si sceglie di percorrere strade alternative, visto che Lampedusa è ormai al collasso. Il flusso di arrivi da record che ha segnato il 2008 non sembra arrestarsi anche nei primi mesi del 2009, così come i naufragi. La decisione di Maroni di trasformare il centro di accoglienza in Cie era stata presa per disporre il rimpatrio direttamente dall'isola siciliana, senza il trasferimento in altre strutture dove gli stranieri devono essere identificati per verificare se abbiano diritto all'asilo. Nelle intenzioni del ministro doveva servire anche da deterrente per chi pensava di fare tappa a Lampedusa, essere portato altrove e poi far perdere le proprie tracce al termine del periodo di permanenza obbligatorio. E invece dalle coste libiche continuano a partire barconi, ma la rivolta dei clandestini scoppiata sull'isola un mese fa e culminata con l'incendio della base ha dimezzato i posti disponibili.
Si cambia, dunque, e si portano gli extracomunitari in Sicilia. Oppure in Calabria. Il decreto firmato il 23 febbraio da Maroni dispone che «parte dell'area demaniale sita nell'ex distaccamento dell'Aeronautica Militare "Sant'Anna" di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, finora usata come centro di prima accoglienza e per chi richiede asilo, sia individuata come centro di identificazione ed espulsione». Nel provvedimento si sottolinea che la modifica si è resa necessaria «perché i Cie funzionanti non sono al momento sufficienti a soddisfare le esigenze e dunque occorre attivare ulteriori strutture». Lo stesso Maroni aveva annunciato più volte la creazione di nuovi Cie nelle regioni dove non ci sono strutture, ma il piano si è fermato per le resistenze degli enti locali e perché gli edifici messi a disposizione dal Demanio sono per lo più fatiscenti e dunque devono essere completamente ristrutturati. I tempi non potranno essere brevi, visto che lo stanziamento dei fondi necessari a compiere i lavori è stato inserito nel ddl sulla sicurezza che non sarà approvato in via definitiva prima di fine maggio.
Fiorenza Sarzanini
31 marzo 2009

lunedì 30 marzo 2009

Le notizie che ci farebbero anche ridere se non si stesse scherzando con la pelle nostra e di migliaia di esseri umani disperati!

«Per quanto riguarda la prevenzione degli sbarchi abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare a cominciare dall'accordo m con la Libia che diventerà operativo, di fatto, dal prossimo 15 maggio». Così il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, commenta le ultime notizie riguardanti nuovi sbarchi di immigrati sulle coste italiane. «Abbiamo l'impegno da parte del governo Libico -ha ricordato Maroni- di far partire il pattugliamento delle coste libiche con sei motovedette il 15 di maggio e da quella data mi aspetto anche la chiusura dell'ingresso dal canale libico». A margine di un convegno proprio sull'immigrazione all'Università Cattolica di Milano, Maroni ha spiegato di continuare «a sollecitare le autorità libiche perchè aumentino i controlli ma ci sarà da aspettarsi, probabilmente, una continuazione di questi sbarchi fino al 15 maggio. Poi però l'accordo sarà attuato e il problema sarà risolto». Maroni ha poi voluto sottolineare «un episodio che nessuno a riportato: nei giorni scorsi è stato intercettato nelle acque libiche un altro barcone e le autorità libiche sono andate a prenderlo e se lo sono riportato in Libia. È la prima volta che succede negli ultimi dieci anni ed è il segnale che, se anche lentamente, qualcosa sta cambiando. Noi -ha concluso- ci aspettiamo la svolta da quanto partirà il pattugliamento».

sabato 28 marzo 2009

Le notizie che ci piacciono!

IMMIGRAZIONE: LAMPEDUSA; PETIZIONE COMITATO NO CIE (ANSA)

LAMPEDUSA (AGRIGENTO), 28 MAR - Ad oltre due mesi dall'istituzione del Centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa, il comitato No Cie ha promosso una petizione popolare con una raccolta di firme partita oggi nell'isola. «L'iniziativa - spiegano in una nota i promotori - non è stata condivisa dall'amministrazione comunale, che ha tentato di bloccarla negando l'autorizzazione a installare un banchetto in piazza Libertà e adducendo motivazioni di ordine politico, definendo la manifestazione tardiva, se non deleteria, poichè sarebbe stato superato il momento della contrapposizione». «Nell'opporsi al Cie - conclude la nota -, i lampedusani chiedono che venga ripristinato il sistema di soccorso e accoglienza già sperimentato con l'apertura nel 2006 del nuovo Cspa di contrada Imbriacole, che si era addirittura affermato come modello per l'Europa intera».
(ANSA). TE 28-MAR-09 17:17 NNN FINE DISPACCIO

venerdì 27 marzo 2009

Nota stampa del Movimento NO C.I.E. Lampedusa

Per la difesa della dignità e del futuro delle Pelagie e dei suoi abitanti
Per la difesa dei diritti umani dei migranti

Con una petizione popolare, riparte la mobilitazione “NO C.I.E.” a Lampedusa.

Ad oltre due mesi dall’istituzione del Centro di Identificazione ed Espulsione di Lampedusa, non cessa la protesta della cittadinanza contro il provvedimento del Ministro Maroni.
Con una petizione popolare che partirà domani, sabato 28 marzo, nella Piazza Libertà, si darà il via ad una nuova mobilitazione nell’isola che non si arrende e che chiede di essere ascoltata.
Tale iniziativa non è stata condivisa dall’amministrazione comunale, che si è spinta al punto di tentare di bloccarla negando l’autorizzazione ad installare il banchetto nella pubblica piazza. E ciò adducendo esclusivamente motivazioni di ordine politico, definendola “tardiva se non addirittura deleteria poiché è stato abbondantemente superato il momento della contrapposizione per lasciar spazio ad un momento, certamente più costruttivo, di concertazione ”. Essendo tali motivazioni giuridicamente irrilevanti e pertanto non idonee ad impedire l’iniziativa (come comunicato al Sindaco mediante trasmissione di apposito parere legale), domani partirà la raccolta delle sottoscrizioni.
Il primo obiettivo è quello di dimostrare che la stragrande maggioranza degli abitanti delle Pelagie non accetta e non accetterà mai che le loro isole possano trasformarsi nella Guantanamo d’Europa.
Nell’opporsi al C.I.E., i lampedusani chiedono che venga ripristinato il sistema di soccorso e accoglienza già sperimentato con l’apertura nel 2006 del nuovo C.S.P.A. di C.da Imbriacole, che si era addirittura affermato come modello per l’Europa intera.
Proprio all’inizio della stagione estiva, si vuole riaffermare l’immagine delle Pelagie come isole turistiche, come luoghi di straordinaria bellezza da visitare e abitate da persone civili e accoglienti, che credono nei valori fondanti della democrazia e nella solidarietà e che quindi si rifiutano di ospitare prigioni per gli immigrati.
La decisione di istituire e realizzare a Lampedusa un Centro di Identificazione ed Espulsione, all’interno del quale trattenere tutti i migranti che provengono dal Nord Africa è giudicata dai lampedusani inutile, irragionevole, e doppiamente ingiusta.
INUTILE. Perchè è a tutti evidente che la lotta all’immigrazione irregolare fatta a Lampedusa riguarderebbe soltanto una percentuale irrisoria del fenomeno: solo 9.000 persone su oltre 33.000 migranti giunti a Lampedusa nel 2008, a fronte di oltre 330.000 immigrati irregolari che affluiscono ogni anno in Italia.
IRRAGIONEVOLE . Perché i rimpatri non potranno mai essere effettuati legalmente da Lampedusa, priva di uno scalo internazionale; ed anche perché, per essere un’isola così lontana, così dipendente dalla terraferma per ogni tipo di approvvigionamento (idrico, energetico, ecc.), e persino sprovvista di adeguate strutture socio-sanitarie, Lampedusa è il luogo meno adatto d’Italia per collocarvi qualunque tipo di struttura detentiva. .
DOPPIAMENTE INGIUSTA . Nei confronti degli isolani, che come risposta alla legittima richiesta di affermazione dei propri diritti (mobilità, salute, istruzione, lavoro), hanno ricevuto l’immediata costruzione di un carcere in una delle zone più belle dell’isola, realizzato al di fuori di ogni regola in materia urbanistica ed ambientale. Nei confronti dei migranti, che vengono ammassati in condizioni di precarietà e di estremo disagio e privati della possibilità di accedere a qualsiasi tipo di tutela giuridica.

Lampedusa, 27 marzo 2008

martedì 24 marzo 2009

Anche oggi una notizia "segreta"!

IMMIGRAZIONE: RIVOLTA IN CENTRO DETENZIONE MALTA, 2 FERITI (ANSAmed) - LA VALLETTA

(MALTA) 23 MAR - Due soldati sono stati feriti a Malta durante una rivolta nel centro di detenzione di Safi: circa 600 migranti sono riusciti a forzare il cancello della struttura, ma sono stati bloccati dalle forze dell'ordine in assetto anti-sommossa. La calma è stata ripristinata dopo due ore di scontri. Secondo un portavoce del Ministero per gli interni, la rivolta sarebbe collegata al mancato accoglimento della richieste di asilo avanzate dagli immigrati. Gli extracomunitari protestano anche contro la politica di detenzione forzata da parte di Malta.
(ANSAmed). Y9Y-MIU 23-MAR-09 11:19 NNN

giovedì 19 marzo 2009

Le notizie di oggi che nessuno ci dà (Agenzie ANSA)

IMMIGRAZIONE: ALEMANNO, SCUSA A TARQUINIA PER ANNUNCIO CIE (ANSA) - TARQUINIA (VITERBO), 19 MAR -
Il sindaco di Roma Gianni Alemanno si scusa con la comunità di Tarquinia (Viterbo) e con il sindaco Mauro Mazzola per aver annunciato nel corso della trasmissione televisiva 'Porta a Portà del 9 marzo l' apertura di un Centro di identificazione ed espulsione per immigrati clandestini nell'ex polveriera della cittadina viterbese. In una lettera inviata al sindaco di Tarquinia, Alemanno ha scritto che non era sua intenzione «provocare alcun contrasto nè alcuna polemica con la popolazione di Tarquinia e con il primo cittadino». L'annuncio di Alemanno, il giorno successivo, fu smentito dal ministro dell'Interno Roberto Maroni con una telefonata a Mazzola. Le affermazioni del sindaco di Roma, tra l'altro, sono state oggetto di una mozione approvata dal consiglio regionale del Lazio che definisce «inopportuna e sbagliata» la collocazione di un Cie o di un campo rom nell'ex struttura militare di Tarquinia. «Prendo atto delle parole di Alemanno - ha detto Mazzola - e auspico che in futuro non si ripetano episodi che alimentino tensioni inutili e dannose e creano forti preoccupazioni sociali, specialmente in una piccola comunità, qual è Tarquinia».
(ANSA). YJ6-CH 20-MAR-09 20:12 NNN FINE DISPACCIO
IMMIGRAZIONE: SPAGNA, ONU INDAGA SU MORTE SENEGALESE (ANSAmed) - MADRID, 20 MAR -
Il Comitato contro la turtura dell'Onu ha chiesto alla Spagna di chiarire le circostanze della morte del senegalese Lading Sonko, annegato nel settembre del 2007 dopo essere stato intercettato dagli agenti della guardia civile mentre tentava di raggiungere a nuoto con un salvagente le coste di Ceuta, enclave spagnola in Marocco, informa oggi l'edizione on line de El Mundo. Testimoni oculari assicurano infatti che, dopo aver intercettato in mare l'immigrato, gli agenti lo portarono in una motovedetta verso le acque marocchine e, dopo aver sgonfiato il salvagente con un coltello, lo avrebbero lanciato in mare in piena notte in un punto in cui l'immigrato non toccava e nonostante questi li avesse avvertiti che non sapeva nuotare. Un'inchiesta aperta sul caso da parte di un tribunale di Ceuta fu archiviata perchè, essendo Lading Sonko morto in acque marocchine, la competenza non rientrava nella giurisdizione spagnola. Un'altra archiviazione fu decisa dall'Audiencia Provinciale di Cadice. Ma ora il Comitato dell'Onu, che vigila sull'applicazione della Convenzione contro torture ed altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti, ha deciso di riaprire il caso su richiesta della sorella dell'immigrato annegato, Fatou Sonko. (ANSAmed).
YK8-FPI 20-MAR-09 13:00 NNN FINE DISPACCIO

IMMIGRAZIONE: TUNISIA, 17 MORTI E 50 DISPERSI IN NAUFRAGIO (ANSAmed) - TUNISI, 20 MAR -
Un battello pneumatico diretto in Italia con a bordo un centinaio di persone è naufragato ieri pomeriggio al largo di Sfax, in Tunisia provocando 17 morti per annegamento e 50 dispersi mentre 33 persone sono state tratte in salvo dalle unità della Marina tunisina. Lo scrive oggi il quotidiano tunisino in lingua araba Achourouk'. Secondo le prime informazione l'imbarcazione sarebbe partita domenica pomeriggio dalle coste libiche ed è entrata poi nelle acque territoriali tunisine presumibilmente diretta verso l'Italia. In prossimità delle isole Kerkennah, la barca, che trasportava il doppio delle sue capacità, è affondata. La Marina tunisina allertata dalla telefonata di uno degli occupanti e da alcuni pescatori è riuscita a soccorrere 33 persone e a recuperare 17 corpi. Circa cinquanta di persone, tra le quali donne e bambini, è dispersa. Sembra che l'organizzatore del viaggio sia un libico che avrebbe chiesto a ciascuno degli occupanti 1200 dollari.
(ANSAmed) VD 20-MAR-09 14:30 NNN FINE DISPACCIO

Morire di C.I.E. Quando la detenzione amministrativa uccide

Era successo già tante volte, da quando erano stati istituiti i centri di permanenza temporanea ( CPT) , nel 1998. Quello stesso anno Amin Saber moriva in Sicilia, nel CPT di Pian del lago a Caltanissetta, in circostanze che non sono mai state chiarite, anche se a quell’epoca si parlò di un proiettile che, nel corso di un tentativo di fuga, lo avrebbe raggiunto alle spalle. Poi, alla fine del 1999, la strage del centro di detenzione Serraino Vulpitta di Trapani, sei immigrati arsi vivi per la carenza di estintori e per i ritardi nell’apertura della cella nella quale erano rinchiusi con normali catenacci da saracinesca. I responsabili della struttura furono assolti dopo un lungo processo penale, ma per quel rogo lo stato italiano sta risarcendo oggi le vittime che riuscirono a salvarsi. Da allora, anno dopo anno, una lunga serie di morti sospette, sempre archiviate con la ritrattazione dei pochi testimoni, mentre i mezzi di informazione si limitavano ad elencare le denunce e i decreti di espulsione che riguardavano le vittime. Un modo per tranquillizzare l’opinione pubblica, in fondo ad un clandestino, ad un pregiudicato, magari anche ad un tossicodipendente, che cosa può succedere se non finire i suoi giorni dentro un centro di detenzione amministrativa?Ancora lo scorso anno, da Torino a Caltanissetta, altri decessi senza colpevoli, sempre il solito copione. Le prime testimonianze che riferiscono di percosse da parte della polizia, o di ritardi nella somministrazione delle cure mediche, poi la ritrattazione dei testimoni oculari e quindi la “dispersione” di quanti potrebbero deporre durante un processo, con la esecuzione immediata di trasferimenti e di provvedimenti di espulsione. Le cronache che riferiscono per qualche giorno della “morte di un clandestino”, i responsabili delle strutture che affermano di essere intervenuti tempestivamente, i vertici della polizia che escludono qualsiasi maltrattamento degli “ospiti”, come li chiamano loro, dei centri di detenzione. Un copione che potrebbe ripetersi ancora, oggi a Ponte Galeria, dove è morto per arresto cardiaco un immigrato algerino in attesa di espulsione, Salah Souidani, di 42 anni, domani chissà dove.Durante la visita all’interno del Centro Polifunzionale di Caltanissetta, ad esempio,diversi migranti, avevano fornito, alla presenza di parlamentari, una versione dei fatti, relativi alla morte di un giovane ghanese deceduto il 30 giugno 2008, che appariva assai diversa da quella fornita dalle autorità, in particolare per quanto concerne gli orari e le modalità di intervento dei medici. L’inchiesta avviata dalla magistratura non ha ancora stabilito le cause del decesso, se i soccorsi siano stati tempestivi, mentre la stampa locale ha continuato ad attribuire maggiore rilievo alla “cattura” di ambulanti privi di permesso di soggiorno o alla diffusione della tbc o della scabbia nei centri di accoglienza. Come al solito nessuno spazio sulle cronache nazionali.Quando si verifica la morte di un immigrato dentro un centro di detenzione amministrativa, non si può continuare a ripetere sempre che si è trattato solo di “fatalità”, chiudendo in tutta fretta il caso. Chiediamo alla magistratura, oggi a Roma come ancora a Caltanissetta, dopo la autopsia dei cadaveri delle vittime, un accertamento tempestivo dei fatti e delle eventuali responsabilità . Nell’interesse dei migranti, che sono e saranno ancora trattenuti nei centri di detenzione italiani, e degli stessi operatori delle strutture, che resterebbero altrimenti macchiati a vita dall’ombra del sospetto. Chiediamo soprattutto che vengano forniti alla magistratura i filmati registrati dai sistemi di sorveglianza, e che i diversi centri di trattenimento o di accoglienza non siano più, in futuro, affollati da un numero di persone superiore alla loro capienza, o impermeabili alla stampa ed alle associazioni umanitarie indipendenti.Quanto succede nei CIE italiani, la tragedia maturata all’interno del centro di identificazione e d espulsione di Ponte Galeria, non sono frutto di fatalità o di eventi straordinari, ma derivano dalle modalità di gestione militare dei centri di detenzione, ancora più “avvelenata” dopo l’inasprimento che si è voluto da parte del governo con il prolungamento dei termini di trattenimento fino a sei mesi. Quando qualcuno si sente male viene spesso ignorato perché si pensa che sia solo un tentativo di fuga, e le proteste vengono duramente represse, con l’uso della forza nei confronti degli immigrati. Il centro di Ponte Galeria a Roma rimane poi la struttura più inaccessibile ed anche quella dalla quale si effettuano i rimpatri verso i paesi di provenienza, come probabilmente si stava verificando anche nel caso di Salah Souidani, un luogo nel quale la disperazione può raggiungere il massimo.La notizia di una frettolosa apertura di altri ( sette o dieci non si sa) centri di detenzione amministrativa in diverse regioni italiane, la utilizzazione come centri “chiusi” dei centri di emergenza istituiti in base alla Legge Puglia del 1995, e la commistione tra immigrati appena sbarcati ( ai quali si potrebbe applicare il nuovo reato di immigrazione clandestina), ed immigrati da espellere dopo essere stati arrestati ed espulsi, perché privi di un permesso di soggiorno, non possono che alimentare le preoccupazioni più gravi per il futuro. Ed è noto quanto la detenzione amministrativa, prolungata adesso a sei mesi, risulti poco efficace al fine di un riconoscimento delle persone e di un effettivo rimpatrio. Ma quello che preoccupa maggiormente è il livello di abbandono nella quale versano gli immigrati che transitano in queste strutture, un abbandono che può anche uccidere. La carenza di assistenza medica e legale nei centri di trattenimento italiani, comunque denominati, risale a molti anni fa ed è stata altresì rilevata dalla Commissione Libertà civili e giustizia del Parlamento Europeo nel dicembre del 2007. Eppure malgrado queste denunce e le critiche contenute nella relazione della Commissione De Mistura, nella passata legislatura, la situazione dei CIE è sempre più militarizzata, poco importa se la sorveglianza è affidata alla polizia di stato o alla Croce Rossa militare, di centri di detenzione si continua a morire.Un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro ha descritto il razzismo istituzionale praticato in Italia ai danni degli immigrati. Il sistema dei centri di detenzione amministrativa, soprattutto dopo il prolungamento del trattenimento fino a sei mesi, rappresenta il perno delle politiche di esclusione e di criminalizzazione che con violenza crescente si rivolgono nei confronti degli immigrati. Piuttosto che reagire con sdegno alle accuse ben documentate del rapporto delle Nazioni Unite, sarebbe bene che i rappresentanti del governo si preoccupino di verificare il rispetto delle norme e dei diritti fondamentali dei migranti rinchiusi nei CIE italiani.Le esperienze precedenti, i ricorrenti insabbiamenti non ci permettono di nutrire fiducia nelle indagini amministrative già disposte dal ministero dell’interno “per fare chiarezza” su quanto realmente accaduto nel centro di detenzione di Ponte Galeria. La copertura data dal governo, ancora oggi, agli autori della “macelleria” di Bolzaneto e della Diaz lascia prevedere , ammesso che si riesca ad individuare dei responsabili, un simile atteggiamento anche nei confronti di coloro che si rendono responsabili di violenze ed abusi ai danni degli immigrati rinchiusi nei CIE o in strutture similari. Chiediamo una ispezione urgente del Comitato di prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, nei centri di detenzione amministrativa italiana, comunque denominati, per accertare le condizioni di legalità, il rispetto del diritto alla salute e delle norme di sicurezza. Chiediamo alla Commissione Europea un rigoroso monitoraggio delle modalità di attuazione in Italia della Direttiva 2008/115/CE in materia di rimpatri e di detenzione amministrativa.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo