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Quest'anno il Lampedusa in Festival è arrivato alla sua terza edizione. Con molto entusiasmo stiamo portando avanti questa iniziativa che riteniamo sia importante per Lampedusa, i lampedusani e tutti coloro che amano l'isola. Purtroppo, anche quest'anno, dobbiamo fare i conti con le nostre tante idee e i nostri pochi fondi per realizzarle.

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venerdì 27 febbraio 2009

Tunisia, la rivolta del «popolo delle miniere» - Una roccaforte operaia nel bacino di Gafsa

luglio 2008
di Karine Gantin e Omeyya Seddik*

Con l'arresto a fine giugno di diversi dirigenti del movimento di protesta della città di Redeyef, accusati di reati gravi (costituzione di banda armata, sovvertimento dell'ordine pubblico, violenze su rappresentanti dello stato e così via) e sottoposti a duri interrogatori, il potere tunisino cerca di soffocare una mobilitazione che da gennaio riunisce tutta la popolazione del bacino minerario di Gafsa.

«Poiché vogliono tanto questa città, gliela lasciamo!» Arrabbiate, le donne di Redeyef, nel bacino minerario di Gafsa, hanno deciso mercoledì 7 maggio 2008 di abbandonare il paese. Molti abitanti «dimissionari» sono scesi in strada con un bagaglio improvvisato per protestare contro l'invasione della loro città da parte della polizia. Ma le forze dell'ordine mettono in guardia la popolazione: se andranno in montagna verso l'Algeria, saranno accusati di tradimento, come gli abitanti del villaggio vicino che avevano chiesto asilo politico a quel paese qualche settimana prima. Così la popolazione fa marcia indietro, convinta dai membri del comitato negoziale interpellato da un potere locale disorientato. L'argomento avanzato ha convinto questa gente: bisogna rimanere per continuare la lotta.Dall'inizio di quest'anno, a 400 chilometri a sud-ovest di Tunisi, la popolazione di questa roccaforte operaia, spesso ribelle nel passato (1), si sta costruendo la propria storia in una rivolta compatta, rabbiosa e orgogliosa. Una popolazione che affronta unita la strategia governativa fatta di isolamento, di soprusi polizieschi e di controllo dei media.Tutto comincia il 5 gennaio 2008, giorno in cui sono pubblicati i risultati, ritenuti falsi, del concorso di assunzione della Compagnia di fosfati di Gafsa (Cpg), l'unico motore economico della regione.Giovani disoccupati occupano la sede regionale dell'Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt) a Redeyef. A loro si uniscono le vedove dei minatori e le loro famiglie, che montano delle tende davanti all'edificio. Il movimento si estende rapidamente. Operai, disoccupati, studenti e abitanti moltiplicano gli scioperi, le azioni, gli incontri.In una situazione di grande povertà e di inflazione, tutti protestano contro la corruzione di un sistema locale nepotistico e contro una politica dell'occupazione iniqua.Redeyef è vicina alla frontiera algerina, e come le altre città del bacino minerario di Gafsa (Oum Larayes, Metlaoui, El Mdhilla, ecc.), vive sotto il controllo della Cpg, creata nel 1897 intorno ai giacimenti scoperti dal francese Philippe Thomas (veterinario militare, direttore del penitenziario agricolo locale e geologo dilettante). Fin dall'inizio l'estrazione delle ricchezze del sottosuolo è fatta secondo i metodi tipici del modello coloniale (2): accaparramento delle terre attraverso l'espropriazione brutale delle popolazioni locali; sfruttamento intensivo delle risorse naturali; estrazione con un alto consumo di vite umane e con una forte produzione di rifiuti inquinanti; rapporti di lavoro e di potere fondati su relazioni clientelari, di clan e familiari (3). Fosfato, clientelismo e corruzione La maggior parte di questi aspetti sono sopravvissuti alla decolonizzazione in forma rinnovata. La Cpg, che si è fusa nel 1996 con il Gruppo chimico tunisino (Gct), rimane il principale datore di lavoro della regione. Nel corso degli ultimi 25 anni la modernizzazione della produzione, la sostituzione progressiva delle miniere in galleria con quelle a cielo aperto ha diminuito la durezza del lavoro e il tasso di mortalità fra gli operai. Ma questa modernizzazione, accompagnata dall'applicazione del piano di aggiustamento strutturale, ha ridotto di circa il 75% gli effettivi della compagnia.Oggi solo cinquemila persone lavorano direttamente alle dipendenze della Cpg e beneficiano di uno statuto e di condizioni di lavoro privilegiate in una regione dove la disoccupazione interessa il 30% della popolazione attiva (il doppio del tasso nazionale), secondo cifre ufficiali piuttosto discutibili. Intorno alla compagnia gravitano diverse imprese di subappalto, con i loro lavori precari e sottopagati.Il commercio al dettaglio, in particolare con l'Algeria, completa il quadro del mondo lavorativo della regione. Per trovare lavoro, c'è chi rischia la vita attraversando il Mediterraneo; altri invece vanno a vivere nelle periferie povere delle città della Tunisia «utile», quelle della costa.I 5 mila posti della compagnia e i fondi destinati alla riconversione sono gestiti in stretta collaborazione con l'Ugtt. Fino a qualche anno fa la stabilità della regione era ottenuta con una modesta redistribuzione dei grandi benefici prodotti dall'industria di fosfati, secondo dei sottili equilibri di clan e familiari garantiti dai dirigenti regionali della confederazione sindacale e dal partito al potere, il Raggruppamento costituzionale democratico (Rcd). Questi dirigenti erano al tempo stesso i rappresentanti o gli interlocutori delle principali tribù della regione, gli Ouled Abid e gli Ouled Bouyahia. La progressiva diminuzione delle risorse da distribuire e la diffusione della corruzione, mentre il prezzo internazionale del fosfato è salito alle stelle, hanno rotto questi equilibri. La direzione regionale dell'Ugtt è diventata il centro di un'oligarchia che si limita a distribuire fra gli amici e i parenti diretti le briciole della rendita del fosfato.Questa struttura è il rappresentante locale più potente di quello che gli abitanti vedono ormai come un potere «esterno» e ingiusto.«Noi, il popolo delle miniere, non siamo mai ingiusti, ma se sono ingiusti con noi, allora...», la frase termina con un insulto. Lo striscione è esposto a una delle entrate di Redeyef, in un quartiere povero ed emarginato, teatro degli scontri recenti con la polizia.Da gennaio la mobilitazione è continuata ininterrottamente: le azioni dei disoccupati, dei laureati senza lavoro sono accompagnate dalle occupazioni e dalle manifestazioni nelle quali si ritrova tutta la popolazione. Le proteste delle famiglie degli invalidi della compagnie e dei morti in miniera si uniscono alle azioni degli operai licenziati.Le proteste delle madri i cui figli o mariti sono in prigione in seguito alle prime manifestazioni hanno portato a uno sciopero generalizzato che coinvolge anche i piccoli commercianti.La notte i ragazzi pattugliano la città per proteggerla, dopo aver suonato l'adunata lanciando sassi contro le strutture metalliche di un ponte; sono i loro «tamburi di guerra» e fanno ricorso a un vocabolario che ricorda le tradizioni delle tribù guerriere, pronti ad affrontare i poliziotti o a rubare i loro sandwich per redistribuirli.Il tono generale riflette un'impressionante coesione popolare che le forze dell'ordine non riescono a rompere. Nonostante il controllo statale dei media, la sollevazione di questa regione isolata rappresenta il più lungo movimento sociale, il più potente e il più maturo della recente storia della Tunisia.Il potere ha risposto a questa agitazione con una repressione sempre più brutale, che ha fatto almeno due morti, decine di feriti e numerosi arresti. Alcune famiglie sono state trattate con violenza e molte proprietà sono state saccheggiate. In giugno il ricorso a unità blindate dell'esercito ha rafforzato l'assedio del bacino minerario. L'escalation della violenza di stato si manifesta con il ricorso alle armi, con la moltiplicazione dei sequestri di giovani per interrogatori e arresti arbitrari e con rastrellamenti militari nelle montagne circostanti, allo scopo di ritrovare chi cerca di sfuggire alla tortura.Diversi gruppi di giovani hanno già subito dei processi a porte chiuse.La gravità delle pene è molto arbitraria e varia da un processo all'altro, segno che il potere esita sulla strategia da seguire.L'opposizione a Tunisi e i comitati di sostegno a Nantes, dove vive un'importante comunità immigrata originaria di Redeyef, a Parigi(4) e a Milano si battono per rompere il blocco dell'informazione. Ma la mobilitazione rimane circoscritta. Politicamente debole, passata per molto tempo sotto il rullo compressore di un regime di polizia, la società civile fa fatica a reagire. Il potere parla di questi eventi solo per accusare gli «elementi perturbatori». Forse per questo la rivolta non è andata oltre la città di Feriana, nel vicino governatorato di Kasserine.A Redeyef il vento della rivolta ha portato alla creazione di un nuovo quotidiano. La sede locale dell'Ugtt, in pieno centro, è stata occupata sotto il naso della vicina sottoprefettura, ed è diventata il quartier generale degli abitanti in rivolta. Gli uomini della direzione regionale dell'Ugtt hanno cercato di riprenderla chiudendola con dei lucchetti, ma la popolazione ne ha imposto la riapertura.Al pianterreno dell'edificio, dove si svolgono gli incontri, il caffè serve da punto di ritrovo permanente. Lo spiazzo accoglie le riunioni con gli oratori che parlano dal balcone al primo piano. Nel corso di queste riunioni la presenza delle donne è significativa. Di fronte si distribuiscono volantini e giornali dell'opposizione. Qui si trovava in giugno il chiosco di Boubaker Ben Boubaker, detto l'«autista», laureato disoccupato e fruttivendolo, noto per essere l'autore di una lettera ironica sulla soluzione del problema della disoccupazione indirizzata al ministro dell'Educazione. Di recente la polizia ha fatto irruzione in casa sua, e la sua abitazione è stata semidistrutta.Come altri oppositori, Boubaker è fuggito in montagna.«Ben Ali, 2080». La lotta è politica «Dobbiamo ottenere un risultato positivo. La gente deve sapere che la lotta pacifica non è inutile. Altrimenti sarebbe catastrofico».Adnane Hajji, segretario generale del sindacato dell'insegnamento elementare nella città di Redeyef e figura carismatica del movimento, ha saputo mantenere l'unità al di là delle rivalità e dei clan. Questo dirigente gode di una grande popolarità, anche tra le donne e gli adolescenti; sa che questa avventura è già andata molto lontano e che qualunque tentativo di tornare indietro potrebbe avere conseguenze incontrollabili. Nella notte fra il 20 e il 21 giugno Hajji è stato arrestato in casa sua e incriminato. Gli altri animatori del movimento sono tutti ricercati.Per Hajji il problema rimane regionale. Anche se dall'inizio del movimento di protesta i cartelloni elettorali «Ben Ali 2009», che annunciano la prossima elezione presidenziale, sono spesso abbattuti dalla popolazione o modificati ironicamente in «Ben Ali 2080» o «Ben Ali 2500», in occasione delle manifestazioni o delle riunioni i militanti politici sono pregati di non parlare della loro appartenenza politica.In effetti nel bacino minerario la popolazione non crede molto a un cambiamento imminente alla guida del paese(5). Solo una forte campagna di solidarietà nazionale e internazionale, o un allargamento della contestazione ad altre regioni, potrebbe allentare la morsa del regime. Nel frattempo il movimento reclama la fine della repressione e l'apertura di veri negoziati per una soluzione onorevole della crisi. Si chiede l'annullamento dei risultati del concorso di assunzione considerato illegale, un programma di assunzione dei laureati disoccupati, il coinvolgimento dello stato nella creazione di grandi progetti industriali, il rispetto delle norme internazionali sull'ambiente e dei servizi pubblici accessibili ai più poveri (come l'elettricità, l'acqua corrente, l'istruzione e la sanità). Non a caso lo slogan del movimento è: «Determinazione e dignità»

note:* Rispettivamente giornalista e politologo, membro della Federazione dei tunisini per una cittadinanza delle due rive (Ftcr). Omeyya Seddik ha soggiornato sul posto durante il mese di maggio.(1) Si veda a proposito dello sciopero nel bacino minerario del marzo 1937 e della repressione violenta che provocò la morte di 17 minatori, il bel testo di Simone Weil, «Le sang coule en Tunisie», pubblicato nella raccolta Ecrits historique et politiques, Gallimard, Parigi, 1960. In questo testo la scrittrice polemizza con il Fronte popolare che afferma di difendere la classe operaia, mentre chiude gli occhi sui crimini compiuti contro di essa nelle colonie. Inoltre due anni dopo lo sciopero del 1978 si è avuta la «rivolta di Gafsa» nel corso del quale la regione è stata la base di un tentativo di colpo di stato. Si legga anche Khemais Chamari, «L'alerte tunisienne», Le Monde diplomatique, marzo 1980.(2) Si legga Paul Vigné d'Octon, La Sueur du bournous (1911), Les Nuits rouges, Parigi, 2001. L'autore è stato deputato dell'Hérault e relatore speciale dell'Assemblea nazionale sulla situazione delle colonie durante la III repubblica.(3) Sul sistema di controllo del territorio durante il protettorato e l'articolazione dei poteri tradizionali, si legga la tesi di dottorato di Elisabeth Mouilleau (1998), Fonctionnaires de la République et artisans de l'empire. Le cas des contrôleurs civils en Tunisie, 1881-1956, L'Harmattan, Parigi, 2000.(4) C/o Ftcr, 3, rue de Nantes, Parigi 19°, www.ftcr.eu (5) Sull'origine e sull'evoluzione del potere di Zine El-Abidine Ben Ali, si legga Kamel Labidi, «La lunga discesa all'inferno della Tunisia», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2006.(Traduzione A. D. R.)

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