appello

Appello a tutti...

Quest'anno il Lampedusa in Festival è arrivato alla sua terza edizione. Con molto entusiasmo stiamo portando avanti questa iniziativa che riteniamo sia importante per Lampedusa, i lampedusani e tutti coloro che amano l'isola. Purtroppo, anche quest'anno, dobbiamo fare i conti con le nostre tante idee e i nostri pochi fondi per realizzarle.

Chiediamo a tutti coloro che credono nel Lampedusa in Festival e nel lavoro che Askavusa sta facendo -rispetto all'immigrazione e al territorio di Lampedusa- di dare un contributo, anche minimo, per permettere al Festival di svolgere quella funzione di confronto e arricchimento culturale che ha avuto nelle passate edizioni.

Per donazioni:
Ass. Culturale Askavusa
Banca Sant'Angelo
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martedì 31 marzo 2009

Dal "Corriere della sera" di oggi, 31 marzo 2009

BASTA LAMPEDUSA, CLANDESTINI DIROTTATI A PORTO EMPEDOCLE

Il ministro Maroni: «Dal 15 maggio sarà operativo l'accordo siglato con i libici e gli sbarchi finiranno»
ROMA — Evitare Lampedusa. Il mare in burrasca non ferma l'arrivo di centinaia di immigrati e il ministero dell'Interno mette in atto il nuovo dispositivo che prevede di «dirottare» a Porto Empedocle i mezzi soccorsi al largo. Chi riesce ad aggirare i controlli e approdare sull'isola siciliana deve essere invece trasferito nella struttura di Isola Capo Rizzuto, trasformata un mese fa in centro di identificazione ed espulsione. Le decisioni, prese in sede riservata durante il comitato per l'ordine e la sicurezza del 12 marzo scorso, sono operative. Alla riunione di una settimana fa presieduta dal ministro dell'Interno Roberto Maroni aveva partecipato anche il comandante generale delle Capitanerie di porto Raimondo Pollastrini. A lui il titolare del Viminale aveva affidato il compito di comunicare le ultime direttive alle motovedette impegnate nel pattugliamento del canale nel tratto che separa l'Italia dalle coste africane.
Ieri Maroni ha ribadito la «certezza che dal 15 maggio, quando sarà operativo l'accordo siglato con i libici, gli sbarchi finiranno». Ma si tratta più che altro di una speranza, non c'è alcuna certezza che le autorità di Tripoli consentano davvero ai poliziotti italiani di partecipare ai controlli di fronte alle loro coste. E dunque si sceglie di percorrere strade alternative, visto che Lampedusa è ormai al collasso. Il flusso di arrivi da record che ha segnato il 2008 non sembra arrestarsi anche nei primi mesi del 2009, così come i naufragi. La decisione di Maroni di trasformare il centro di accoglienza in Cie era stata presa per disporre il rimpatrio direttamente dall'isola siciliana, senza il trasferimento in altre strutture dove gli stranieri devono essere identificati per verificare se abbiano diritto all'asilo. Nelle intenzioni del ministro doveva servire anche da deterrente per chi pensava di fare tappa a Lampedusa, essere portato altrove e poi far perdere le proprie tracce al termine del periodo di permanenza obbligatorio. E invece dalle coste libiche continuano a partire barconi, ma la rivolta dei clandestini scoppiata sull'isola un mese fa e culminata con l'incendio della base ha dimezzato i posti disponibili.
Si cambia, dunque, e si portano gli extracomunitari in Sicilia. Oppure in Calabria. Il decreto firmato il 23 febbraio da Maroni dispone che «parte dell'area demaniale sita nell'ex distaccamento dell'Aeronautica Militare "Sant'Anna" di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, finora usata come centro di prima accoglienza e per chi richiede asilo, sia individuata come centro di identificazione ed espulsione». Nel provvedimento si sottolinea che la modifica si è resa necessaria «perché i Cie funzionanti non sono al momento sufficienti a soddisfare le esigenze e dunque occorre attivare ulteriori strutture». Lo stesso Maroni aveva annunciato più volte la creazione di nuovi Cie nelle regioni dove non ci sono strutture, ma il piano si è fermato per le resistenze degli enti locali e perché gli edifici messi a disposizione dal Demanio sono per lo più fatiscenti e dunque devono essere completamente ristrutturati. I tempi non potranno essere brevi, visto che lo stanziamento dei fondi necessari a compiere i lavori è stato inserito nel ddl sulla sicurezza che non sarà approvato in via definitiva prima di fine maggio.
Fiorenza Sarzanini
31 marzo 2009

lunedì 30 marzo 2009

Le notizie che ci farebbero anche ridere se non si stesse scherzando con la pelle nostra e di migliaia di esseri umani disperati!

«Per quanto riguarda la prevenzione degli sbarchi abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare a cominciare dall'accordo m con la Libia che diventerà operativo, di fatto, dal prossimo 15 maggio». Così il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, commenta le ultime notizie riguardanti nuovi sbarchi di immigrati sulle coste italiane. «Abbiamo l'impegno da parte del governo Libico -ha ricordato Maroni- di far partire il pattugliamento delle coste libiche con sei motovedette il 15 di maggio e da quella data mi aspetto anche la chiusura dell'ingresso dal canale libico». A margine di un convegno proprio sull'immigrazione all'Università Cattolica di Milano, Maroni ha spiegato di continuare «a sollecitare le autorità libiche perchè aumentino i controlli ma ci sarà da aspettarsi, probabilmente, una continuazione di questi sbarchi fino al 15 maggio. Poi però l'accordo sarà attuato e il problema sarà risolto». Maroni ha poi voluto sottolineare «un episodio che nessuno a riportato: nei giorni scorsi è stato intercettato nelle acque libiche un altro barcone e le autorità libiche sono andate a prenderlo e se lo sono riportato in Libia. È la prima volta che succede negli ultimi dieci anni ed è il segnale che, se anche lentamente, qualcosa sta cambiando. Noi -ha concluso- ci aspettiamo la svolta da quanto partirà il pattugliamento».

sabato 28 marzo 2009

Le notizie che ci piacciono!

IMMIGRAZIONE: LAMPEDUSA; PETIZIONE COMITATO NO CIE (ANSA)

LAMPEDUSA (AGRIGENTO), 28 MAR - Ad oltre due mesi dall'istituzione del Centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa, il comitato No Cie ha promosso una petizione popolare con una raccolta di firme partita oggi nell'isola. «L'iniziativa - spiegano in una nota i promotori - non è stata condivisa dall'amministrazione comunale, che ha tentato di bloccarla negando l'autorizzazione a installare un banchetto in piazza Libertà e adducendo motivazioni di ordine politico, definendo la manifestazione tardiva, se non deleteria, poichè sarebbe stato superato il momento della contrapposizione». «Nell'opporsi al Cie - conclude la nota -, i lampedusani chiedono che venga ripristinato il sistema di soccorso e accoglienza già sperimentato con l'apertura nel 2006 del nuovo Cspa di contrada Imbriacole, che si era addirittura affermato come modello per l'Europa intera».
(ANSA). TE 28-MAR-09 17:17 NNN FINE DISPACCIO

venerdì 27 marzo 2009

Nota stampa del Movimento NO C.I.E. Lampedusa

Per la difesa della dignità e del futuro delle Pelagie e dei suoi abitanti
Per la difesa dei diritti umani dei migranti

Con una petizione popolare, riparte la mobilitazione “NO C.I.E.” a Lampedusa.

Ad oltre due mesi dall’istituzione del Centro di Identificazione ed Espulsione di Lampedusa, non cessa la protesta della cittadinanza contro il provvedimento del Ministro Maroni.
Con una petizione popolare che partirà domani, sabato 28 marzo, nella Piazza Libertà, si darà il via ad una nuova mobilitazione nell’isola che non si arrende e che chiede di essere ascoltata.
Tale iniziativa non è stata condivisa dall’amministrazione comunale, che si è spinta al punto di tentare di bloccarla negando l’autorizzazione ad installare il banchetto nella pubblica piazza. E ciò adducendo esclusivamente motivazioni di ordine politico, definendola “tardiva se non addirittura deleteria poiché è stato abbondantemente superato il momento della contrapposizione per lasciar spazio ad un momento, certamente più costruttivo, di concertazione ”. Essendo tali motivazioni giuridicamente irrilevanti e pertanto non idonee ad impedire l’iniziativa (come comunicato al Sindaco mediante trasmissione di apposito parere legale), domani partirà la raccolta delle sottoscrizioni.
Il primo obiettivo è quello di dimostrare che la stragrande maggioranza degli abitanti delle Pelagie non accetta e non accetterà mai che le loro isole possano trasformarsi nella Guantanamo d’Europa.
Nell’opporsi al C.I.E., i lampedusani chiedono che venga ripristinato il sistema di soccorso e accoglienza già sperimentato con l’apertura nel 2006 del nuovo C.S.P.A. di C.da Imbriacole, che si era addirittura affermato come modello per l’Europa intera.
Proprio all’inizio della stagione estiva, si vuole riaffermare l’immagine delle Pelagie come isole turistiche, come luoghi di straordinaria bellezza da visitare e abitate da persone civili e accoglienti, che credono nei valori fondanti della democrazia e nella solidarietà e che quindi si rifiutano di ospitare prigioni per gli immigrati.
La decisione di istituire e realizzare a Lampedusa un Centro di Identificazione ed Espulsione, all’interno del quale trattenere tutti i migranti che provengono dal Nord Africa è giudicata dai lampedusani inutile, irragionevole, e doppiamente ingiusta.
INUTILE. Perchè è a tutti evidente che la lotta all’immigrazione irregolare fatta a Lampedusa riguarderebbe soltanto una percentuale irrisoria del fenomeno: solo 9.000 persone su oltre 33.000 migranti giunti a Lampedusa nel 2008, a fronte di oltre 330.000 immigrati irregolari che affluiscono ogni anno in Italia.
IRRAGIONEVOLE . Perché i rimpatri non potranno mai essere effettuati legalmente da Lampedusa, priva di uno scalo internazionale; ed anche perché, per essere un’isola così lontana, così dipendente dalla terraferma per ogni tipo di approvvigionamento (idrico, energetico, ecc.), e persino sprovvista di adeguate strutture socio-sanitarie, Lampedusa è il luogo meno adatto d’Italia per collocarvi qualunque tipo di struttura detentiva. .
DOPPIAMENTE INGIUSTA . Nei confronti degli isolani, che come risposta alla legittima richiesta di affermazione dei propri diritti (mobilità, salute, istruzione, lavoro), hanno ricevuto l’immediata costruzione di un carcere in una delle zone più belle dell’isola, realizzato al di fuori di ogni regola in materia urbanistica ed ambientale. Nei confronti dei migranti, che vengono ammassati in condizioni di precarietà e di estremo disagio e privati della possibilità di accedere a qualsiasi tipo di tutela giuridica.

Lampedusa, 27 marzo 2008

martedì 24 marzo 2009

Anche oggi una notizia "segreta"!

IMMIGRAZIONE: RIVOLTA IN CENTRO DETENZIONE MALTA, 2 FERITI (ANSAmed) - LA VALLETTA

(MALTA) 23 MAR - Due soldati sono stati feriti a Malta durante una rivolta nel centro di detenzione di Safi: circa 600 migranti sono riusciti a forzare il cancello della struttura, ma sono stati bloccati dalle forze dell'ordine in assetto anti-sommossa. La calma è stata ripristinata dopo due ore di scontri. Secondo un portavoce del Ministero per gli interni, la rivolta sarebbe collegata al mancato accoglimento della richieste di asilo avanzate dagli immigrati. Gli extracomunitari protestano anche contro la politica di detenzione forzata da parte di Malta.
(ANSAmed). Y9Y-MIU 23-MAR-09 11:19 NNN

giovedì 19 marzo 2009

Le notizie di oggi che nessuno ci dà (Agenzie ANSA)

IMMIGRAZIONE: ALEMANNO, SCUSA A TARQUINIA PER ANNUNCIO CIE (ANSA) - TARQUINIA (VITERBO), 19 MAR -
Il sindaco di Roma Gianni Alemanno si scusa con la comunità di Tarquinia (Viterbo) e con il sindaco Mauro Mazzola per aver annunciato nel corso della trasmissione televisiva 'Porta a Portà del 9 marzo l' apertura di un Centro di identificazione ed espulsione per immigrati clandestini nell'ex polveriera della cittadina viterbese. In una lettera inviata al sindaco di Tarquinia, Alemanno ha scritto che non era sua intenzione «provocare alcun contrasto nè alcuna polemica con la popolazione di Tarquinia e con il primo cittadino». L'annuncio di Alemanno, il giorno successivo, fu smentito dal ministro dell'Interno Roberto Maroni con una telefonata a Mazzola. Le affermazioni del sindaco di Roma, tra l'altro, sono state oggetto di una mozione approvata dal consiglio regionale del Lazio che definisce «inopportuna e sbagliata» la collocazione di un Cie o di un campo rom nell'ex struttura militare di Tarquinia. «Prendo atto delle parole di Alemanno - ha detto Mazzola - e auspico che in futuro non si ripetano episodi che alimentino tensioni inutili e dannose e creano forti preoccupazioni sociali, specialmente in una piccola comunità, qual è Tarquinia».
(ANSA). YJ6-CH 20-MAR-09 20:12 NNN FINE DISPACCIO
IMMIGRAZIONE: SPAGNA, ONU INDAGA SU MORTE SENEGALESE (ANSAmed) - MADRID, 20 MAR -
Il Comitato contro la turtura dell'Onu ha chiesto alla Spagna di chiarire le circostanze della morte del senegalese Lading Sonko, annegato nel settembre del 2007 dopo essere stato intercettato dagli agenti della guardia civile mentre tentava di raggiungere a nuoto con un salvagente le coste di Ceuta, enclave spagnola in Marocco, informa oggi l'edizione on line de El Mundo. Testimoni oculari assicurano infatti che, dopo aver intercettato in mare l'immigrato, gli agenti lo portarono in una motovedetta verso le acque marocchine e, dopo aver sgonfiato il salvagente con un coltello, lo avrebbero lanciato in mare in piena notte in un punto in cui l'immigrato non toccava e nonostante questi li avesse avvertiti che non sapeva nuotare. Un'inchiesta aperta sul caso da parte di un tribunale di Ceuta fu archiviata perchè, essendo Lading Sonko morto in acque marocchine, la competenza non rientrava nella giurisdizione spagnola. Un'altra archiviazione fu decisa dall'Audiencia Provinciale di Cadice. Ma ora il Comitato dell'Onu, che vigila sull'applicazione della Convenzione contro torture ed altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti, ha deciso di riaprire il caso su richiesta della sorella dell'immigrato annegato, Fatou Sonko. (ANSAmed).
YK8-FPI 20-MAR-09 13:00 NNN FINE DISPACCIO

IMMIGRAZIONE: TUNISIA, 17 MORTI E 50 DISPERSI IN NAUFRAGIO (ANSAmed) - TUNISI, 20 MAR -
Un battello pneumatico diretto in Italia con a bordo un centinaio di persone è naufragato ieri pomeriggio al largo di Sfax, in Tunisia provocando 17 morti per annegamento e 50 dispersi mentre 33 persone sono state tratte in salvo dalle unità della Marina tunisina. Lo scrive oggi il quotidiano tunisino in lingua araba Achourouk'. Secondo le prime informazione l'imbarcazione sarebbe partita domenica pomeriggio dalle coste libiche ed è entrata poi nelle acque territoriali tunisine presumibilmente diretta verso l'Italia. In prossimità delle isole Kerkennah, la barca, che trasportava il doppio delle sue capacità, è affondata. La Marina tunisina allertata dalla telefonata di uno degli occupanti e da alcuni pescatori è riuscita a soccorrere 33 persone e a recuperare 17 corpi. Circa cinquanta di persone, tra le quali donne e bambini, è dispersa. Sembra che l'organizzatore del viaggio sia un libico che avrebbe chiesto a ciascuno degli occupanti 1200 dollari.
(ANSAmed) VD 20-MAR-09 14:30 NNN FINE DISPACCIO

Morire di C.I.E. Quando la detenzione amministrativa uccide

Era successo già tante volte, da quando erano stati istituiti i centri di permanenza temporanea ( CPT) , nel 1998. Quello stesso anno Amin Saber moriva in Sicilia, nel CPT di Pian del lago a Caltanissetta, in circostanze che non sono mai state chiarite, anche se a quell’epoca si parlò di un proiettile che, nel corso di un tentativo di fuga, lo avrebbe raggiunto alle spalle. Poi, alla fine del 1999, la strage del centro di detenzione Serraino Vulpitta di Trapani, sei immigrati arsi vivi per la carenza di estintori e per i ritardi nell’apertura della cella nella quale erano rinchiusi con normali catenacci da saracinesca. I responsabili della struttura furono assolti dopo un lungo processo penale, ma per quel rogo lo stato italiano sta risarcendo oggi le vittime che riuscirono a salvarsi. Da allora, anno dopo anno, una lunga serie di morti sospette, sempre archiviate con la ritrattazione dei pochi testimoni, mentre i mezzi di informazione si limitavano ad elencare le denunce e i decreti di espulsione che riguardavano le vittime. Un modo per tranquillizzare l’opinione pubblica, in fondo ad un clandestino, ad un pregiudicato, magari anche ad un tossicodipendente, che cosa può succedere se non finire i suoi giorni dentro un centro di detenzione amministrativa?Ancora lo scorso anno, da Torino a Caltanissetta, altri decessi senza colpevoli, sempre il solito copione. Le prime testimonianze che riferiscono di percosse da parte della polizia, o di ritardi nella somministrazione delle cure mediche, poi la ritrattazione dei testimoni oculari e quindi la “dispersione” di quanti potrebbero deporre durante un processo, con la esecuzione immediata di trasferimenti e di provvedimenti di espulsione. Le cronache che riferiscono per qualche giorno della “morte di un clandestino”, i responsabili delle strutture che affermano di essere intervenuti tempestivamente, i vertici della polizia che escludono qualsiasi maltrattamento degli “ospiti”, come li chiamano loro, dei centri di detenzione. Un copione che potrebbe ripetersi ancora, oggi a Ponte Galeria, dove è morto per arresto cardiaco un immigrato algerino in attesa di espulsione, Salah Souidani, di 42 anni, domani chissà dove.Durante la visita all’interno del Centro Polifunzionale di Caltanissetta, ad esempio,diversi migranti, avevano fornito, alla presenza di parlamentari, una versione dei fatti, relativi alla morte di un giovane ghanese deceduto il 30 giugno 2008, che appariva assai diversa da quella fornita dalle autorità, in particolare per quanto concerne gli orari e le modalità di intervento dei medici. L’inchiesta avviata dalla magistratura non ha ancora stabilito le cause del decesso, se i soccorsi siano stati tempestivi, mentre la stampa locale ha continuato ad attribuire maggiore rilievo alla “cattura” di ambulanti privi di permesso di soggiorno o alla diffusione della tbc o della scabbia nei centri di accoglienza. Come al solito nessuno spazio sulle cronache nazionali.Quando si verifica la morte di un immigrato dentro un centro di detenzione amministrativa, non si può continuare a ripetere sempre che si è trattato solo di “fatalità”, chiudendo in tutta fretta il caso. Chiediamo alla magistratura, oggi a Roma come ancora a Caltanissetta, dopo la autopsia dei cadaveri delle vittime, un accertamento tempestivo dei fatti e delle eventuali responsabilità . Nell’interesse dei migranti, che sono e saranno ancora trattenuti nei centri di detenzione italiani, e degli stessi operatori delle strutture, che resterebbero altrimenti macchiati a vita dall’ombra del sospetto. Chiediamo soprattutto che vengano forniti alla magistratura i filmati registrati dai sistemi di sorveglianza, e che i diversi centri di trattenimento o di accoglienza non siano più, in futuro, affollati da un numero di persone superiore alla loro capienza, o impermeabili alla stampa ed alle associazioni umanitarie indipendenti.Quanto succede nei CIE italiani, la tragedia maturata all’interno del centro di identificazione e d espulsione di Ponte Galeria, non sono frutto di fatalità o di eventi straordinari, ma derivano dalle modalità di gestione militare dei centri di detenzione, ancora più “avvelenata” dopo l’inasprimento che si è voluto da parte del governo con il prolungamento dei termini di trattenimento fino a sei mesi. Quando qualcuno si sente male viene spesso ignorato perché si pensa che sia solo un tentativo di fuga, e le proteste vengono duramente represse, con l’uso della forza nei confronti degli immigrati. Il centro di Ponte Galeria a Roma rimane poi la struttura più inaccessibile ed anche quella dalla quale si effettuano i rimpatri verso i paesi di provenienza, come probabilmente si stava verificando anche nel caso di Salah Souidani, un luogo nel quale la disperazione può raggiungere il massimo.La notizia di una frettolosa apertura di altri ( sette o dieci non si sa) centri di detenzione amministrativa in diverse regioni italiane, la utilizzazione come centri “chiusi” dei centri di emergenza istituiti in base alla Legge Puglia del 1995, e la commistione tra immigrati appena sbarcati ( ai quali si potrebbe applicare il nuovo reato di immigrazione clandestina), ed immigrati da espellere dopo essere stati arrestati ed espulsi, perché privi di un permesso di soggiorno, non possono che alimentare le preoccupazioni più gravi per il futuro. Ed è noto quanto la detenzione amministrativa, prolungata adesso a sei mesi, risulti poco efficace al fine di un riconoscimento delle persone e di un effettivo rimpatrio. Ma quello che preoccupa maggiormente è il livello di abbandono nella quale versano gli immigrati che transitano in queste strutture, un abbandono che può anche uccidere. La carenza di assistenza medica e legale nei centri di trattenimento italiani, comunque denominati, risale a molti anni fa ed è stata altresì rilevata dalla Commissione Libertà civili e giustizia del Parlamento Europeo nel dicembre del 2007. Eppure malgrado queste denunce e le critiche contenute nella relazione della Commissione De Mistura, nella passata legislatura, la situazione dei CIE è sempre più militarizzata, poco importa se la sorveglianza è affidata alla polizia di stato o alla Croce Rossa militare, di centri di detenzione si continua a morire.Un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro ha descritto il razzismo istituzionale praticato in Italia ai danni degli immigrati. Il sistema dei centri di detenzione amministrativa, soprattutto dopo il prolungamento del trattenimento fino a sei mesi, rappresenta il perno delle politiche di esclusione e di criminalizzazione che con violenza crescente si rivolgono nei confronti degli immigrati. Piuttosto che reagire con sdegno alle accuse ben documentate del rapporto delle Nazioni Unite, sarebbe bene che i rappresentanti del governo si preoccupino di verificare il rispetto delle norme e dei diritti fondamentali dei migranti rinchiusi nei CIE italiani.Le esperienze precedenti, i ricorrenti insabbiamenti non ci permettono di nutrire fiducia nelle indagini amministrative già disposte dal ministero dell’interno “per fare chiarezza” su quanto realmente accaduto nel centro di detenzione di Ponte Galeria. La copertura data dal governo, ancora oggi, agli autori della “macelleria” di Bolzaneto e della Diaz lascia prevedere , ammesso che si riesca ad individuare dei responsabili, un simile atteggiamento anche nei confronti di coloro che si rendono responsabili di violenze ed abusi ai danni degli immigrati rinchiusi nei CIE o in strutture similari. Chiediamo una ispezione urgente del Comitato di prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, nei centri di detenzione amministrativa italiana, comunque denominati, per accertare le condizioni di legalità, il rispetto del diritto alla salute e delle norme di sicurezza. Chiediamo alla Commissione Europea un rigoroso monitoraggio delle modalità di attuazione in Italia della Direttiva 2008/115/CE in materia di rimpatri e di detenzione amministrativa.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo

mercoledì 18 marzo 2009

Tunisia, il golpe italiano. "Sì, scegliemmo Ben Alì"


da La Repubblica dell'11 ottobre 1999.



ROMA - "Non fu un brutale colpo di stato: fu un'operazione di politica estera, messa in piedi con intelligenza, prudenza ma anche decisione dagli uomini che guidavano l'Italia in quegli anni. Sì, è vero, l'Italia sostituì Bourghiba con Ben Ali".

Sono le dieci del mattino: per riscaldarsi ai tavolini del bar di viale Parioli l'uomo del ministero degli Esteri cerca uno spazio al sole fra l'ombra dei platani. "Fu l'Italia a costruire nel giro di un paio di anni la successione indolore fra Bourghiba e Ben Ali. Furono Craxi, Andreotti, il capo del Sismi Martini, il capo dell'Eni Reviglio a garantire una rete di sicurezza al "golpe costituzionale" che Ben Alì mise a segno la notte fra il 6 e il 7 novembre dell'87. La storia è lunga, molto più complicata e molto meno sordida di quanto sembri. Craxi fece una visita in Algeria in cui quelli si dissero pronti a invadere la Tunisia se Bourghiba non avesse garantito la stabilità del suo stesso paese. Gli algerini volevano fare qualcosa per tutelare il gasdotto Algeria-Italia, che nel tratto finale attraversa la Tunisia. L'Italia non poteva tollerare una guerra fra Algeria e Tunisia, ma non poteva neppure permettere che Bourghiba degradasse al punto da rendere insicura la Tunisia. Ma chi sa davvero tutto è l'ammiraglio Martini...".

Le undici di ieri mattina. Nel salotto del suo piccolo appartamento alla Balduina, l'ammiraglio Martini si accomoda in poltrona con agilità insospettabile per i suoi 75 anni. Tutt'intorno i cimeli, i ricordi delle due vite trascorse al servizio della Repubblica, quella da ufficiale di Marina e quella da uomo dei servizi segreti. "La storia è vecchia, ma non capisco proprio perché ci siate saltati su solo adesso: l'avevo fatto capire chiaramente nel mio libro "Ulisse"...".

Ammiraglio, semplicemente perché l'altra sera in Commissione Stragi lei ha pronunciato la parolina magica "golpe", anche se l'ha declinata all'italiana: "Organizzammo una specie di colpo di stato in Tunisia". Cos'è una specie di colpo di stato?

"Allora: all'inizio del 1985 mi chiama Bettino Craxi, presidente del Consiglio. Poco prima era stato in Algeria, dove aveva incontrato il presidente Chadli Benjedid e il primo ministro pro tempore, non ricordo chi fosse..." (il primo ministro pro tempore di Chadli era Abdel Hamid Brahimi, ndr)."Craxi mi dice: ammiraglio, lei deve andare in Algeria, deve incontrare il capo dei loro servizi. Io gli rispondo: presidente, io in Algeria non ci vado. I servizi segreti algerini sono tra i più attivi nell'organizzare e armare i terroristi palestinesi. Il Sismi in quegli anni non aveva contatti con l'Algeria, con i libici, con la Siria. Non avevamo contatti con i servizi che appoggiavano la galassia delle organizzazioni terroristiche palestinesi. Craxi mi ordinò: lei deve andare in Algeria, si cauteli ma vada lì".La visita di Craxi era stata la prima di un premier italiano nell'Algeria che dal 1962 aveva conquistato l'indipendenza dalla Francia. Presentando il viaggio, il 26 novembre del 1984 il corrispondente dell'Ansa da Algeri scrive: "La visita di Craxi cade in un momento particolare per l'Algeria, che è impegnata a diversificare le sue preferenze verso altri paesi dell'Europa occidentale dopo i problemi con Francia e Spagna. La diffidenza di Algeri verso Parigi è scaturita anche dalle intese raggiunte recentemente fra Mitterrand, il re del Marocco Hassan II e il leader libico Gheddafi per il Ciad. Inoltre l'Algeria si è trovata circondata da un blocco militare ostile a seguito dell'Unione fra Libia e Marocco senza un'aperta opposizione della Francia".Craxi giunge ad Algeri il 28 novembre 1984. L'ammiraglio Martini ricorda: "Il presidente algerino prospettò al presidente Craxi un'eventualità che per noi sarebbe stata assai pericolosa. Gli algerini - disse - erano pronti a invadere quella parte del territorio tunisino che è attraversata dal gasdotto. Craxi disse a Chadli: "Aspettate, non vi muovete", e iniziò a muoversi lui con Giulio Andreotti".

Alla fine lei decide il viaggio ad Algeri.

"Naturalmente io eseguo le direttive del governo: non avevamo rapporti diretti col servizio algerino, un servizio unico controllato dai militari. Perciò chiamai l'ambasciata a Roma e dopo pochi giorni col mio aereo atterrai ad Algeri. Mi fecero parcheggiare a fondo pista, lontano da tutti e da tutto. Rimasi a parlare fino a notte fonda con il capo dei loro servizi, e da allora avviammo un dialogo che aveva un grande obiettivo: evitare che la destabilizzazione crescente della Tunisia portasse gli algerini a un colpo di testa. L'Italia offriva aiuto all'Algeria, e in cambio chiedeva aiuto all'Algeria nel controllo del terrorismo in Italia".

Aiuto italiano nella "stabilizzazione" della Tunisia?

"Sì. Da quel momento iniziò una lunga operazione di politica estera in cui i servizi ebbero un ruolo importantissmo. Alla fine individuammo il generale Ben Ali come l'uomo capace di garantire meglio di Bourghiba la stabilità in Tunisia. Da capo dei servizi segreti, poi da ministro dell'Interno Ben Alì si era opposto alla giustizia sommaria che Bourghiba aveva intenzione di fare dei primi fondamentalisti che si infiltravano nei paesi islamici. Dopo la condanna a morte di 7 fondamentalisti, Bourghiba voleva altre teste. Noi proponemmo la soluzione ai servizi algerini, che passarono la cosa anche ai libici. Io personalmente andai a parlare con i francesi...".

Ebbe qualche problema col suo collega francese, il capo della Dgse?

"Era il generale René Imbot, ex capo di stato maggiore dell' Armée. Andai da lui, gli spiegai la situazione, gli dissi che l'Italia voleva risolvere le cose nella maniera più cauta possibile, ma che comunque non voleva aspettare che la Tunisia saltasse per aria. Lui fece un errore imperdonabile: mi trattò con arroganza, mi disse che noi italiani non dovevamo neppure avvicinarci alla Tunisia, che quello era impero francese. Io ancora oggi penso che per difendere un impero bisognava avere i mezzi, la capacità ma anche la solidarietà di chi non è proprio l'ultimo carrettiere del Mediterraneo... Imbot era stato nella Legione straniera per vent'anni, aveva guidato i paracadutisti che parteciparono alla repressione nella casbah durante la battaglia di Algeri. Era un soldato, non capiva la politica, ebbe qualche problema con il suo primo ministro Jacques Chirac".

Voi andaste avanti col vostro piano: sempre con il consenso di Craxi e Andreotti? E gli americani, li avvertiste?

"Gli americani non furono coinvolti. Naturalmente io mi muovevo seguendo le direttive del governo, tenendolo informato passo dopo passo. Noi del Sismi non facemmo nulla di operativo in Tunisia, ma collaborammo a un'azione politica italiana che, appena Ben Ali arrivò al potere, riuscì a sostenere il suo governo politicamente ed economicamente ed aiutò la Tunisia ad evitare l'incubo islamico che ha tormentato paesi come l'Algeria".


La notte del 6 novembre 1987 in Italia il presidente del Consiglio era Giovanni Goria, il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, il leader del Psi Bettino Craxi. Sette medici firmarono un referto che certificò l'incapacità di Habib Bourghiba, il primo ministro-generale Zin el Abidin Ben Ali divenne presidente della Tunisia. Martini ieri sera non ha voluto commentare le dichiarazioni di Pellegrino, Craxi e Andreotti su questo che ha definito "una specie di golpe". I giornalisti che da Tunisi il 7 novembre 1987 trasmisero i loro articoli lo chiamarono "golpe costituzionale". Chiamatelo come volete, la storia è questa.

Ritorno a Lampedusa - IL VIAGGIO A RITROSO DI UN FORZATO DEL MARE

Arrivato nel 2006 su un barcone proveniente dalla Libia, Dag torna oggi sulla terra del suo primo approdo italiano. Un ritorno anomalo, per raccontare agli abitanti dell'isola il vero volto dei «viaggi della speranza»
di Stefano Liberti

Dag guarda l'orizzonte. Osserva la distesa blu, il sole che infiamma la spiaggia e colora di un verde abbagliante la baia dell'isola dei Conigli. Scruta in lontananza e sospira: «Lo sapevo che sarei tornato. Sapevo che sarebbe successo».
Poi rimane in silenzio. Il silenzio di un ricordo che sta fissato in mente, di un arrivo che è stato anche partenza, di uno sguardo sospeso su un passato che si fa presente.
Dag era già venuto a Lampedusa. Era arrivato al molo degli sbarchi. Aveva trascorso una settimana al centro vicino all'aeroporto, quello vecchio, ora chiuso e usato solo come sala d'attesa per i charter pieni di immigrati diretti verso i Cpt in giro per l'Italia. Era poi stato portato sul «continente», a Trapani, dove gli è stato riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria. Era il 30 luglio 2006 e Dag arrivava da sud a bordo di un barcone di legno con 32 compagni di viaggio. Oggi è tornato sull'isola da nord, con il piccolo Atr che ogni giorno tre volte al giorno viene traballando dall'aeroporto di Palermo. Dag ha in tasca il permesso di soggiorno e la carta d'identità bianca dai bordi marroni. Nello zaino ha la telecamera. Negli occhi accesi, la gioia di rivenire qui da «turista». Nelle pieghe del suo sorriso discreto, l'emozione del ritorno in un luogo importante. Dag è «un uomo sulla terra», come vuole il titolo del film di cui è protagonista e regista. Un uomo sulla terra del suo sbarco. Un uomo che porta con sé la fatica di quel viaggio e la consapevolezza di quella fatica. Un uomo che vive il ricordo di quel giorno, nitido e invincibile, come fosse ieri. Lampedusa sono i pochi fotogrammi che aveva visto dal finestrino dell'autobus della polizia e aveva registrato nei minimi dettagli: il molo asfaltato e, di fronte, la spiaggia «baia turchese» zeppa di gente, la strada del porto, la viuzza stretta attraverso cui era passato l'autobus per evitare il centro e l'affollata via Roma. Lampedusa era l'Italia, e «quando sono arrivato mi è piaciuta subito». Era «la terra» per lui che veniva dall'altra sponda. È ancora la terra, il suolo che aveva toccato quel giorno e che oggi può ritoccare mille volte, soppesandolo e annusandolo.
Per chi viene dal continente l'isola è soprattutto il mare che la circonda. Per Dag è il contrario: è la terra avvistata da lontano, è l'approdo. È e rimarrà sempre quella boa di scogli in mezzo a una distesa blu. Dag chiede in continuazione dei punti cardinali. «Dov'è il sud? E l'ovest? Lì in fondo c'è la Libia?». È come se volesse collocare precisamente questo punto in mezzo al mare, volesse adagiarlo su una mappa nel verso giusto. È come se, dalla posizione dell'approdo, volesse ricostruire il tragitto della traversata. «Ricordo che durante il viaggio eravamo in difficoltà, non avevamo un Gps. Alcuni volevano andare a Malta, che era più vicina. Altri insistevano per continuare e cercare di fare rotta su Lampedusa. Eravamo divisi sulla barca. Poi abbiamo avvistato la terra».
Alla Porta d'Europa, il monumento ai migranti morti in mare realizzato dallo scultore Mimmo Paladino, si sofferma su una scritta in basso, piccola ma significativa. Ancora quella parola: «Terra». L'isola che c'è. L'ultimo e il primo avamposto d'Italia. È il tema che ritorna, la fine di un viaggio e l'inizio di un nuovo percorso. Dag gira per Lampedusa, guarda e ricorda. Guarda il vecchio centro di permanenza temporanea, pieno di bottiglie d'acqua abbandonate dagli ultimi passeggeri in partenza, e ricorda quei giorni di luglio trascorsi lì dentro. Guarda la barca dei guardiacostiera e si ritrova lì, insieme ai suoi compagni, quando è stato fatto salire e dal pontile ha visto la sagoma dell'isola sempre più vicina. Guarda il molo e indica con un dito il punto esatto in cui è rimasto a sedere una ventina di minuti prima di essere caricato sull'autobus. Guarda dalla macchina scorrere il lungomare e ricorda quell'altro giorno, due anni e mezzo fa, in cui quello stesso lungomare gli è sfilato di fronte agli occhi veloce e irripetibile in tutt'altra situazione. Dag ritorna a Lampedusa come memoria vivente. Il ricordo del viaggio diventa necessità, esigenza di non dimenticare. Non solo la traversata, ma anche quello che c'è prima: l'esperienza del transito in Libia, le difficoltà, il razzismo, il terrore di essere catturati. La Libia riecheggia in una serie di suoni, nomi di città che diventano altrettanti simboli di tappe del viaggio, ostacoli da superare: l'allucinante campo di Kufrah, dove gli etiopi e gli eritrei sono venduti come carne da macello, il quartiere di Gurji, a Tripoli, dove si aspetta l'imbarco, e il carcere di Misratah, dove grappoli di suoi conoscenti sono rinchiusi da mesi. «All'inizio, quando sono arrivato, non volevo tanto ripensarci. Poi ho capito che era importante ricostruire, narrare, far sapere. È un dovere civico, sia nei confronti di quanti ancora non sono arrivati o si sono persi durante il viaggio, sia nei confronti degli italiani, che non sanno bene cosa succede a sud di Lampedusa». Dag ha raccolto racconti, ha convinto i suoi amici a narrare le loro traversie, che erano state anche le sue, ha messo insieme un groviglio di storie. Ne è nato un documentario, che racconta di loro, del loro viaggio, ma parla a noi, cittadini del nord che osserviamo sbarcare i «clandestini» e spesso non sappiamo quale bagaglio di esperienze, di sofferenze e di gioie portano con sé quegli uomini e donne che arrivano scalzi sulle nostre coste.
Oggi Dag è venuto a mostrare il film a Lampedusa, ai lampedusani, agli abitanti di quella boa perduta in mezzo al mare. La platea è variegata: c'è il sindaco, ci sono rappresentanti delle forze dell'ordine, ci sono i guardiacoste, ci sono i lampedusani. C'è uno spaccato dell'isola: i locali e i forestieri. Mancano solo gli «ospiti» del centro di identificazione ed espulsione di contrada Imbriacola, rinchiusi dentro da due mesi in attesa do conoscere il proprio destino. Dag ripensa ai suoi amici ancora in Libia, al suo passato che ritorna ogni volta che mostra il film, ogni volta che risponde alle domande degli spettatori. È serio e visibilmente emozionato. Quando parla dei suoi compagni di viaggio, si commuove. Dag ha indosso una maglietta. È una maglietta nera, con su scritti in bianco i versi di una poesia di Kostas Kavafis. «Sempre devi avere in mente Itacaraggiungerla sia il pensiero costantesoprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull'isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada».
Non sappiamo se Lampedusa sia la sua Itaca, ma certo è che Dag non ha ancora smesso di viaggiare.

domenica 15 marzo 2009

Gli irregolari rischieranno la segnalazione andandosi a curare, ma anche registrare il figlio all’anagrafe sarà impossibile

Da qualsiasi parte lo si guardi il pacchetto sicurezza approdato alle commissioni riunite della camera, non può non provocare indignazione. L’ultima tra le tante norme approfondite ed analizzate è quella che riguarda l’impossibilità di compiere qualsiasi atto di stato civile senza la preventiva esibizione del permesso di soggiorno.Contrarre matrimonio, riconscere un figlio, certificare la morte, curare la malattia: il governo delle migrazioni comincia ad agire, o meglio, intensifica la sua azione sui corpi, sul bios, sulla salute e la malattia, sulla vita e sulla morte, sulle nascite e sulle unioni.
Invisibili non è mai stato inesistenti. Il massimo dell’invisibilità sociale ha potuto in questi anni convivere con la necessità di tenere buone gambe, braccia e menti per il lavoro nei cantieri o nell’assistenza familiare, ma non solo. Essere invisibili in termini di diritti si è combinato con il massimo di visibilità quando il "clandestino", l’"irregolare" è stato buono per costruire intorno alla sua figura le politiche della sicurezza, della paura, dell’allarme e dell’emergenza.
Ma sarebbe sbagliato pensare al pacchetto sicurezza come uno stigma che riguardi solo ed esclusivamente loro, gli altri, i migranti, i "clandestini".I suoi contenuti ci parlano della crisi, della politica, della vita, del nostro futuro. Lo fanno senza eslcudere nessuno.
E se dentro allo scenario della crisi il razzismo trova facile strada per diffondersi tra le maglie della società travolta e modificata da questo nuovo paradigma globale, una speranza diversa ci viene regalata dall’indignazione a cui, in queste settimane, i medici e tutte le associazioni che operano nel campo della sanità hanno saputo dar voce.E’ possibile oggi guardare alla società che viviamo con gli ochi fatalisti di chi pensa che il destino, di noi tutti, non possa che essere unilateralmente ed incontrovertibilmente scritto da chi legifera. Si può, si deve immaginare la possibilità di praticare una strada diversa.In primo luogo la presa di parola dei medici ci ha parlato dell’indisponibilità di molti ad essere coinvolti nella macchina di controllo sulla vita - siamo medici non spie ci dicono - così come gli operatori sociali riuniti in assemblea a Venezia si sono interrogati su cosa significhi oggi lavorare nel welfare, in questo tempo in cui la macchina del controllo travolge tutto e sembra chiedere a chiunque di partecipare alla costruzione di una grande gabbia. Assemblee hanno luogo in ogni città, nelle province e nelle metropoli, l’ultima mercoledì 11, a Padova, in cui Medici Senza Frontiere, Emergency, Caritas, il Progetto Melting Pot Europa, invitati dall’Associazione Razzismo Stop, si sono incontrati davanti ad una platea di un centinaio di persone, quasi tutti medici, infermieri, specializzandi e studenti di medicina, per discutere dei risvolti della legge ma anche e soprattutto del futuro, di come affrontare insieme lo scenario che va configurandosi.Ma ancora, quello che sta accadendo intorno all’emendamento che sopprime il divieto di segnalazione rileva come ad essere in gioco non sia semplicemente la salute degli invisibili ma più in generale la salute pubblica, la sicurezza di tutti.Una cosa su tutte crediamo vada affermata: non sarà possibile immaginare ed accettare che questo nuovo assetto normativo possa essere affrontato semplicemente nella speranza che le strutture ed i progetti, già da molti anni preoccupati di fornire cure ai migranti irregolari, possano far fronte alla situazione.Lo scenario che si profila è quello di una regressione, un imbarbarimento, un passo indietro dell’intera società, un tentativo di riportare al medioevo e quindi di governare da medioevo, il nostro mondo, i rapporti sociali, le tensioni e le contraddizioni.Non ci stiamo.Per questo, fin da subito, appoggiando ogni iniziativa perchè l’emendamento non venga approvato, ed anche ogni attività, progetto, che tenti di andare oltre, di praticare obiezione, disobbedienza, di garantire vera sicurezza, pensiamo sia doveroso insieme costruire un terreno reale di mobilitazione. Il Ministro Maroni ha annunciato che probabilmente, in sede di discussione alla Camera, alla cancellazione dell’art 35 del T.U. potrebbe essere aggiunto un richiamo alle regioni a regolare in specifico la materia. Questa è una grande possibilità di mobilitazione,Una campagna in ogni regione perchè il governo attraverso il timore, la minaccia, non riescano a produrre ancor più insicurezza.Insieme è possibile rifiutare il ritorno al medioevo e parlare del nostro futuro.

Nicola Grigion, Progetto Melting Pot Europa

giovedì 12 marzo 2009

Comunicato

Venerdì 13 marzo 2009
In occasione della visita del Commissario Europeo Jacques Barrot
COME UN UOMO A LAMPEDUSA
Per fermare le deportazioni e le violenze in Libia

Dagmawi Yimer, rifugiato etiope sbarcato a Lampedusa nel 2006, torna nell’isola come regista del documentario COME UN UOMO SULLA TERRA, per presentare il film con cui denuncia per la prima volta le violenze subite in Libia da migliaia di uomini e donne africane in seguito agli accordi Italia-Libia.

Dag a Lampedusa ci è arrivato il 30 luglio 2006. Ci è rimasto pochi giorni.
Come "clandestino". Come "sbarcato". Come uno dei "tanti volti di disperati". Così raccontano i media.

Venerdì 13 marzo 2009 Dag ritorna a Lampedusa "Come un Uomo". Con la dignità della sua storia e il coraggio del suo racconto. E con Dag tutti i protagonisti del film che Dag ha realizzato.

COME UN UOMO SULLA TERRA, appena tornato dalle sua prima proiezione "africana", verrà presentato a Lampedusa venerdì sera, in occasione della visita nell'isola del Commissario Europeo Jacques Barrot.

Abbiamo anche chiesto un incontro tra Dag e Barrot, per poter consegnare alla Commissione un DVD del film e le prime 5.000 firme della petizione contro le deportazioni in Libia e contro l'accordo Italia-Libia. Sarà l'occasione per chiedere alle istituzioni europee di fermare le violenze, le deportazioni e gli arresti indiscriminati che migliaia di donne e uomini stanno subendo in LIbia, grazie anche alla complicità del Governo e del Parlamento Italiano.

Come raccontiamo nel sito del film:
(http://comeunuomosullaterra.blogspot.com/2008/03/i-pattugliamenti-sono-gia-iniziati.html) abbiamo le testimonianze di pattugliamenti italiani ed europei che fermano le barche dei migranti per consegnarli alla polizia libica, con la totale noncuranza che sia poi la stEssa polizia libica a riservare per i migranti trattamenti disumani con deportazioni in container, lavori forzati, torture, violenze ed espulsioni di massa verso il deserto.

Il viaggio di Dagmawi a Lampedusa è un grido di allarme per fermare questo massacro che oltre a mettere a rischio la vita di migliaia di persone, lede gravemente la dignità e la civiltà della cultura democratica italiana ed europea.

La proiezione del film sarà Venerdì 13 alle ore 18.00
Presso la CASA DELLA FRATERNITA’ a LAMPEDUSA
Saranno presenti anche Riccardo Biadene e Stefano Liberti

Per info sul film
http//comeunuomosullaterra.blogspot.com
Per contatti stampa: a Roma 389.6747891 – a Lampedusa 320.6619896 – 338.8431253

L’evento è organizzato da ASINITAS Onlus, ZaLab e dalla cittadinanza di Lampedusa
Con la collaborazione di FORTRESS EUROPE e CARTA

mercoledì 11 marzo 2009

Come un uomo sulla terra

Un documento visivo che racconta la storia dei migranti e quello che vivono durante la traversata. Noi non vogliamo essere complici!

Lettera di un lampedusano agli abitanti di Redeyef

Cari fratelli è notte e sono stanco, ho finito adesso di mettere , assieme ad alcuni amici, nei tergicristalli delle macchine, un volantino che informa la popolazione di Lampedusa che oggi sono arrivati i prefabbricati per il nuovo centro di identificazione e espulsione che il governo italiano sta costruendo a Lampedusa nonostante il dissenso della maggioranza di noi lampedusani.Ho letto un articolo che parla della vostra protesta, scritto da un vostro connazionale Omeyya Siddik che ho avuto il piacere di conoscere.Mi sento vicino a voi, e credo che stiamo lottando per la stessa causa, la stessa per cui lottano i monaci tibetani, la stessa per cui lottano molti altri, una battaglia repressa con la violenza.Mi sento di dirvi che l'unica via è l'amore, la via apparentemente più difficile e quella sicuramente più giusta, a qualcuno può sembrare utopia questo ragionamento ma io so che voi mi capite.Chi ha tanto non può capire, nella povertà si trova spesso la dignità più alta, io non sono povero ma aspiro ad esserlo, perche chiha troppo è accecato e non vede.La nostra lotta è per il diritto e per la dignità dell'essere umano e voi lo sapete bene, ma purtroppo qui in Italia non si conosce nulla della vostra situazione, chi arriva è visto come un pericoloso criminale, che viene a rubarci il lavoro, e a commetere reati feroci.La violenza e l'avidità sembrano sovrastare tutto, la paura di chi è diverso da noi sembra essere più forte di qualsiasi slancio umano, l'indifferenza per le sofferenze altrui, il non volere neanche sapere cosa succede in altri posti sembrano avere la meglio.Ma io ho fede nell'immenso, credo che il bene sia superiore a tutto, che nella sofferenza si possa trovare una via per la giustizia, credo in Dio che è amore assoluto, e credo che il mondo non ci appartenga che neanche la nostra stessa vita ci appartenga, è un dono meraviglioso che dovremmo rispettare e far rispettare, ma chi ha il potere vuole solo mantenerlo e fare più soldi, e qualcuno dice "Ma cosa te ne frega, il mondo è stato sempre cosi e sarà sempre cosi, tira l'acqua al tuo mulino" cosa potrei rispondere, spesso ho solo rabbia e senso di impotenza e quasi sempre i fatti danno ragione a chi parla in questo modo.Ma poi succedono cose miracolose, succede ad esempio che i vostri connazionali ed altri immigrati chiusi nel centro di Lampedusa scappano e si ritrovano a manifestare insieme a noi in piazza, succede che le stesse persone che fino a poco tempo prima sentivi parlare con toni quasi razzisti abbracciano gli immigrati e gli offrono da bere e gli danno da mangiare, li fanno riposare nelle proprie case, gli offrono un pasto caldo, e questa è la speranza ed è questa la Lampedusa che io vorrei ed il mondo che mi piacerebbe che fosse.Prima di tutto siamo esseri legati alla luce e al mistero, prima di essere di una nazione siamo della terra, questa minuscola sfera che girà nell'infinito, prima di essere vestiti siamo nudi, quando nasciamo abbiamo freddo e qualcuno ci scalda e gridiamo perche intuiamo la sofferenza che ci attende, ma alcuni nascono in silenzio altri addirittura ridono, e siamo tutti nudi e indifesi.Prima di pensare ai consumi si dovrebbe pensare ai bisogni, prima di aspirare ad avere dovremmo imparare a donare, prima di imparare a donare dovremmo imparare a donarci, prima di giudicare dovremmo conoscere.Quando leggevo quello che vi sta capitando provavo ad immaginare i vostri visi, le vostre espressioni, e stranamente vi immaginavo sorridenti, fieri , vi immaginavo nelle case con pochi oggetti che preparavate da mangiare e parlavate e i vostri figli piccoli ascoltavano i vostri discorsi, e voi neanche ci facevate caso, ed intanto stavate cambiando il mondo.Vi voglio bene Giacomo Sferlazzo.

Processo per il naufragio del Natale ’96: condannato a 30 anni anche Thourab

Si è da poco conclusa l’ultima udienza a Catania , dopo le arringhe degli avvocati e del PM Toscano, del processo d’appello contro l’armatore pakistano-maltese Thourab, in quanto “organizzatore della spedizione” con il battello F174 ( che giace in fondo al mare a 19 miglia da Portopalo) , con una condanna per omicidio volontario plurimo in base agli articoli 110, 112 e 575 del CP ed a un risarcimento per le famiglie di ciascuna vittima con una provvisionale di 20.000 euro. Questa sentenza fa seguito alla vergognosa assoluzione in primo grado nel processo a Siracusa.
Si arriva così ad un secondo segnale di svolta, dopo oltre 12 anni, del lungo calvario per i familiari delle vittime e per i superstiti, in seguito alla giusta condanna del 9/4/’08 , pure a 30 anni, dell’altro imputato El Hallal.
Sia il PM Toscano che gli avvocati dei familiari delle vittime hanno espresso piena soddisfazione per la sentenza. Pensiamo però che non si possano attenuare le gravi manchevolezze nell’investigare sulla rete di complicità della “holding degli schiavisti” ( come la definiva Dino Frisullo); dato che , il padre della vittima Shabib (in attesa di permesso di soggiorno, ma costretto a tornare in Pakistan per l’aggravarsi della madre), Zabiullah , aveva già ricostruito la rete di “agenzie di viaggio” a Karachi, Colombo, Alessandria d’Egitto… Ciononostante l’Interpol ancora brancola nel buio. Sarebbe stata inoltre necessaria un’indagine anche sulle numerose omissioni di soccorso e di atti d’ufficio di casa nostra, dato che in troppi si sono ostinati a considerare per anni il naufragio "presunto".
In questi anni il numero delle vittime è salito vertiginosamente ed i trafficanti di esseri umani continuano ad ingrassarsi approfittando di leggi proibizioniste che impediscono ingressi regolari: Si preferisce dilapidare denaro pubblico per militarizzare le nostre coste e costruire nuovi lager, inoltre, si firmano accordi di riammissione con governi del bacino nordafricano sempre più corrotti e liberticidi; addirittura si esternalizzano le galere etniche in paesi come la Libia e si trasforma Lampedusa in una nuova Guantanamo.
La sentenza di oggi è un secondo passo per ottenere Verità e Giustizia non solo per gli imputati Thourab ed El Hallal, che dovranno finalmente iniziare a pagare per i loro crimini (nonostante siano contumaci), ma all’interno di un progressivo accertamento dell’insieme delle responsabilità della rete internazionale dei trafficanti e dei loro complici, anche in Italia; dato che le tragedie per entrare nella fortezza Europa si moltiplicano, grazie alla vergognosa latitanza bipartisan delle forze politiche, che , invece d’ investire in nuove politiche d’accoglienza preferiscono vergognose politiche securitarie , riducendosi così a fare la guerra ai poveri, anzichè alla povertà.
Ct 11/3/’09

Rete Antirazzista Catanese, Senza Confine, Associazione Lavoratori Pakistani in Italia

martedì 10 marzo 2009

DURANTE L'INCENDIO NEL CPT DI CONTRADA IMBRIACOLA A LAMPEDUSA

19 Febbraio è mattina,esco di casa. In lontananza una grossa nube di fumo “staranno bruciando erbaccia pensavo”,
più mi avvicino al centro del paese più grande è la fumata nera. Mi fermo al bar e mi giunge voce che c’è una rivolta in corso al CPA . Senza pensare più di tanto prendo la macchina e mi dirigo come un pazzo verso il lager,la nube era enorme sembrava che non finisse più. Ad un certo punto un tizio mi mostra il distintivo dicendomi di spostare l’auto per far si che i vigili del fuoco potessero posteggiare,questo tizio e ben da due mesi che lo vedo gironzolare per l’isola,all’impatto mi è sembrato un fottuto giornalista e invece….
Tutto mi sembrava fatto a posta non so perché, è stata una sensazione,corro a casa per informare la mia compagna dell’accaduto,facciamo strada per ritornare al CPA,troviamo un posto di blocco dei carabinieri non ci fanno passare,prendiamo un'altra strada,una strada che porta sopra una collina dove la visuale è perfetta,le fiamme sono altissime,la struttura rivestita in plastica dove si trovavano gli alloggi totalmente in fiamme,di conseguenza la grossa nube nera permaneva. Vedo tre ragazzi del (OIM) un’ associazione per i diritti umani,corro verso di loro per farmi spiegare la situazione,dicono che il giorno prima i migranti hanno organizzato uno sciopero della fame,alcuni di loro non hanno voluto aderire alla protesta,cosi si sono scontrati tra loro,di conseguenza gli sbirri hanno caricato,dopo di che è stato innescato l’incendio alimentato dai lacrimogeni.L’incendio è stato domato e spento,ci sono stati feriti sia migranti che sbirri.
Dicono che non ci sono stati morti fino ad ora,io non ci credo,per un motivo valido.All’interno del cpa si trovavano anche tre ragazzi feriti,sensa possibilità di muoversi. Chissà se sono stati soccorsi in tempo?
Questa è la nostra realtà un carcere a cielo aperto,fiamme,distruzione,e l’autorità dello stato che calpesta le nostre teste..

Gianluca

ECCOVI I PALADINI DELLA SOLIDARIETà
GLI AGUZZINI DELL'ULTIMO MILLENNIO!!!

Libia: ecco le foto dei campi di detenzione

IN QUESTO LINK POTRETE VEDERE LE CONDIZIONI NELLE CARCERI IN LIBIA

COME I PROBLEMI LOCALI DIVENTANO GLOBALI

Gli aerei senza pilota partiranno da Sigonella per spiare l’Africa, catturare informazioni tramite potenti e pericolosi radar, supportare le guerre USA. L’esercito italiano, compreso lo stormo di stanza in Sicilia, è già impegnato nel contrasto all’immigrazione clandestina. I profughi delle guerre africane (come quelle in Sudan e Somalia) sono spesso respinti in mare e – nelle intenzioni del governo – dovrebbero essere trattenuti a Lampedusa e ricacciati nei campi libici. Il Mediterraneo diventa un mare di guerra e di morte

La prossima volta che ascolterete un politico siciliano parlare della sua isola come di un ponte di pace proteso verso l’Africa, ricordategli la differenza tra le chiacchiere e la realtà. La Sicilia sta diventando un bastione della fortezza che respinge o incarcera i profughi, o nella migliore delle ipotesi li destina al lavoro servile; una piattaforma della macchina da guerra globale che spia stati sovrani alla ricerca di elementi per scatenare nuove guerre, o vincere quelle in corso; una caserma a cielo aperto che ospita temibili strumenti di morte pronti all’uso, dannosi per i suoi stessi abitanti.
MUOS, Africom, CPT e derivati, pattugliatori, Frontex, Global Hawk, AGS sono i nomi dei (costosissimi) strumenti di guerra e di contrasto all’immigrazione usati contro un intero continente, e che per buona parte trovano in Sicilia la loro base operativa.

Sorveglianza sul terreno
"Rispetto ad altre località – dice il ministro della Difesa La Russa festeggiando la decisione NATO di installare in Sicilia il sistema AGS (Alliance Ground Surveillance) - Sigonella si presta sia come luogo, sia come efficienza, sia come costi ridotti", ovvero un miliardo e mezzo di euro, di cui almeno 150 milioni a carico del contribuente italiano[1].
Secondo il ministro, il sistema porterà almeno 800 nuovi militari in Sicilia, che si sommeranno ai 3500 già presenti. “La realizzazione di nuovi residence porterà quindi una boccata d’aria fresca all’economia”, conclude La Russa. Facile ipotizzare il rilancio a breve dell’operazioni Xirumi, la maxi-lottizzazione degli aranceti di Lentini già in passato spacciate per future residenze dei militari Usa.
Al momento, però, la nostra economia già soffre abbastanza di “burden sharing”, ovvero la “condivisione del peso” delle spese, a cominciare dai circa 900 MWH a settimana consumati dalla base ed ammessi da poco da fonti ufficiali USA[2].
Secondo Robert Pszczel, portavoce NATO, il programma sarà operativo nel 2012. Subito saranno dislocati otto Global Hawk, i veivoli senza pilota costruiti negli Stati Uniti. Originariamente” dichiara Pszczel, “dovevamo impiegare sia aerei con che senza pilota, alla fine saranno impiegati solo questi ultimi”[3].
Il sistema AGS è un nuovo programma NATO che prevede appunto di impiegare aerei senza pilota (UAV) per le ricognizioni e la raccolta di informazioni su Africa e Medio Oriente, da destinare agli strateghi politici e militari dell’Alleanza atlantica ed ai “decision makers”. Il rischio riguarda anche la privacy dei cittadini, poiché saranno intercettabili anche le comunicazioni telefoniche. Il progetto è stato concepito nel clima paranoico della “war on terror” statunitense, quando nei posti chiave del potere c’erano gli autori del “Piano per un nuovo secolo americano” che ipotizzavano un rinnovato dominio USA sul resto del pianeta.
Nonostante i fallimenti della politica presidenziale di Bush, da cui ormai chiunque - compresi i repubblicani del Congresso - non vedono l’ora di smarcarsi, il governo italiano testardamente continua ad accodarsi a progetti ormai superati dagli eventi.
Uno dei punti di forza di questa politica che viene dal passato sarà la base di Sigonella, la cui posizione al centro del Mediterraneo è considerata ideale sia per le proiezioni contro il Medio Oriente (Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran) sia per possibili obiettivi africani (Sudan, Somalia), oltre che per il controllo sui paesi arabi del Nord Africa.
Tutti luoghi dove vere o fittizie minacce islamiche possano rievocare il fantasma dell’11 settembre, giustificare attacchi e bombardamenti, sostenere la prima e più forte industria degli USA, cioè il complesso militare e le tante corporations multimilionarie che attorno ad esso prosperano da anni.
Le nuove guerre saranno sempre più basate sull’innovazione tecnologica, in particolare l’automazione e la sostituzione dell’elemento umano. Gli aerei senza pilota sono uno dei punti cardine di tutti i nuovi piani, nonostante la loro incompatibilità con il traffico civile, specie in presenza di trafficati aeroporti nelle vicinanze: Sigonella si trova a due passi da Fontanarossa, terzo scalo italiano per volume di traffico, e già ne ospita il radar. Dobbiamo prepararci ad una nuova Ustica teleguidata?
Di fronte ad un parlamentare della Repubblica, e nel corso di una ispezione ufficiale, il comandante italiano della base smentì decisamente la realizzazione del MUOS, così come la presenza di aerei senza pilota. “La gestione di questi velivoli radioguidati non è compatibile col traffico civile già gestito dal radar militare”, disse[4]. Era la primavera del 2008. Basteranno pochi mesi per avere notizia del MUOS di Niscemi e dell’AGS di Sigonella. Chi prende, dunque, le decisioni? E i militari italiani ne sono informati?
L’installazione del MUOS (Mobile User Objective System) è prevista a Niscemi, nel cuore della Sicilia, dove già sono in funzione 41 antenne USA. Si tratta di una delle quattro stazioni terrestri del sistema della U.S. Navy che collegherà - con comunicazioni radio, video e trasmissione dati ad altissima frequenza - le forze navali, aeree e terrestri mentre sono in movimento, in qualsiasi parte del mondo si trovino. “Perché gli altri Muos sono installati in zone desertiche e a Niscemi vicino il centro abitato?”, chiede il sindaco della cittadina siciliana, evidenziando l’alto rischio per una popolazione vittima dei fumi tossici del petrolchimico di Gela da un lato e dall’altro delle onde elettromagnetiche emesse da installazioni trasmittenti per le telecomunicazioni già presenti dal 1991.

Contrasto all’immigrazione clandestina
Qualcuno ha mai visto un cinese che sbarca a Lampedusa? Eppure la comunità asiatica è tra le più numerose, ed in qualche modo dovranno pure arrivare.... L’esempio serve a comprendere che gli sbarchi sono un problema sostanzialmente televisivo ed elettorale: gli immigrati - concentrati sull’isola dai pattugliatori - sono visibili, vengono dall’Africa, sono musulmani, “disperati” e “clandestini”... Tutti elementi buoni per colpire la platea televisiva, ma i numeri rivelano che i migranti giunti a Lampedusa a stento raggiungono il 10% del totale di quanti arrivano in Italia, secondo i dati forniti dal governo nel corso degli anni.
Eppure, impedire sbarchi a Lampedusa significa risolvere il “problema dell’invasione” agli occhi di una opinione pubblica istruita alla paura da un ceto politico che sull’odio del nemico immigrato ha costruito straordinarie ed immeritate carriere politiche.
Da anni, i militari sono in prima linea in questa nuova lotta, ed il mare è la frontiera da difendere. La base italiana del “41.mo stormo Athos Ammannato”, che appartiene all’Aeronautica Militare Italiana ed ha l’onore di ospitare la struttura USA – che formalmente “non esiste” ed è in piedi grazie a misteriosi trattati internazionali -, era stata pensata per il classico scenario da “guerra fredda”.
Sommergibili infidi sotto il pelo d’acqua del Mediterraneo, regimi nordafricani non affidabili, marina ed aviazione proiettate minacciose verso il fianco sud dell’alleanza atlantica. Oggi la loro funzione antisommergibile si limita alle esercitazioni congiunte ed a volenterosi pattugliamenti. Per il resto, la giornata è impegnata in un’unica attività: il contrasto all’immigrazione clandestina
I velivoli dell’aeronautica pattugliano giornalmente il Mediterraneo (“ma sempre in acque internazionali”), dove non è raro incontrare quelle che i telegiornali senza fantasia definiscono “carrette del mare”[5].
Teoricamente, la sorveglianza dall’alto dello spazio terrestre e marino potrebbe essere usata per il contrastare gli sbarchi. La televisione ha ormai imposto l’immaginario di una frontiera sud da difendere dall’assalto di un’orda di “disperati” che viene a delinquere o comunque a mettere in crisi la nostra fragile economia.
(...)


SCHEDA 1 – Nuove guerre / Il “Comando Africa” e i profughi

Il concetto di contrasto all’immigrazione clandestina, praticato attraverso il respingimento alla frontiera, è illegale, almeno per quei paesi che hanno firmato la Convenzione di Ginevra. Chi parte può essere un migrante, alla ricerca di migliori condizioni di vita, oppure un rifugiato, cioè una persona che scappa da persecuzioni e guerre, e quindi ha diritto ad essere accolta e protetta. Il respingimento in mare, tra le altre cose, impedisce questa essenziale distinzione.
I conflitti in Africa sono pressoché endemici, anche grazie agli interventi occidentali. Il flusso di profughi somali e sudanesi che arriva a Lampedusa è ininterrotto da mesi. Dalla fine del 2008 gli USA hanno istituto il “Comando Africa”, dedicando al continente una nuova speciale attenzione.
Due dei comandi militari subordinati di Africom sono stati dislocati in Italia, uno a Napoli e l'altro a Vicenza. Gli scopi di Africom, lo riporta il saggista Manlio Dinucci, sono “l’assistenza umanitaria, il controllo dell'immigrazione e la lotta al terrorismo”.
Il Comando Africa non opera “nel quadro Nato”, ma è uno dei sei comandi unificati del Pentagono. Particolarmente importante sarà il ruolo di Sigonella: qui, dal 2003, opera la Joint Task Force Aztec Silence, la forza speciale che conduce in Africa missioni di intelligence e sorveglianza e operazioni segrete nel quadro della “guerra globale al terrorismo”.
Africom si concentra nell'addestramento di militari africani, con l’obiettivo di portare il maggior numero di paesi africani nella sfera d'influenza statunitense, prospettando così un confronto con la Francia e soprattutto con la Cina. In Sudan accade già qualcosa del genere, ed il risultato è il flusso ininterrotto di profughi di una guerra per il petrolio mascherata da conflitto religioso e tribale.
Eppure i profughi trovano ad accoglierli centri sempre più militarizzati, leggi sempre più restrittive, una generale ostilità fino alla delirante ipotesi leghista di Lampedusa come campo unico per l’immediata espulsione di tutti i migranti.


Scheda 2 – La curiosità / Soldati USA preoccupati per Alitalia: la posta arriva in ritardo

Un ampio articolo di “Stars and Stripes”, il giornale delle truppe USA all’estero, evidenzia la preoccupazione dei militari nei confronti di Alitalia.
Ma i pensieri non sono rivolti alla crisi dell’“official carrier” italiano, né ai posti di lavoro in pericolo, né tanto meno alle tormentate vicende della nuova compagnia. Le preoccupazioni sono tutte per il giorno di ritardo con cui arriva la posta cartacea che viene inviata dai familiari da ogni angolo degli Stati Uniti, concentrata al JFK di New York e spedita alla base di Napoli.
Da qui solitamente arrivava via aereo a Sigonella, ma a causa degli scioperi Alitalia e del suo incerto futuro, da natale 2008 viene caricata su un camion che giunge in traghetto in Sicilia.
Curiosamente, proprio mentre stanno predisponendo un imponente sistema di comunicazioni elettroniche satellitari con base in Sicilia, i militari USA si trovano in difficoltà nel gestire delle “vecchie” lettere imbustate inviate all’isola.
Pacchi e missive non possono salire su un altro vettore, perché Alitalia è il solo autorizzato a trasportare posta militare americana fino a Catania.


[1] I cittadini italiani pagano ogni anno circa 366 milioni di dollari per le “spese di stazionamento” delle forze armate americane, come contributo annuale alla “difesa comune”, ovvero il 41% del totale. Lo rivela il rapporto ufficiale “2004 Statistical Compendium on Allied Contributions to the Common Defense” riferito all’anno precedente. La divisione degli oneri tra Italia e Stati Uniti varia di anno in anno di qualche punto percentuale.
[2] Electrical Consumption at NASSIG, The Signature, 4 febbraio 2009.
[3] Sandra Jontz, NATO system to boost U.S. Sigonella presence, Stars and Stripes, European edition, Wednesday, February 4, 2009
[4] Informazioni tratte dall’ispezione condotta dall’onorevole Salvatore Cannavò a Sigonella, 31 marzo 2008.
[5] Informazioni tratte dall’ispezione condotta dall’onorevole Salvatore Cannavò a Sigonella, 31 marzo 2008.
[6] http://www.terrelibere.org/terrediconfine/il-pentagono-a-obama-in-afghanistan-solo-per-sconfiggere-il-terrorismo
[7] http://www.terrelibere.org/terrediconfine/il-pentagono-a-obama-in-afghanistan-solo-per-sconfiggere-il-terrorismo, cit.
[8] La prima operazione designa l’intervento deciso nel 2001 contro l’Afghanistan all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle, la seconda si riferisce all’invasione dell’Iraq avvenuta nel 2003.

venerdì 6 marzo 2009

C.I.E a Caserta? No, grazie

POLITICA S.Nicola L.S. – C'è la concreta possibilità che il Ministro dell'Interno Maroni faccia costruire un Cie (Centro per l'Identificazione e l'Espulsione di extracomunitari giunti illegalmente in Italia) nei pressi di Caserta, in particolare nella ex caserma deposito dell'Esercito di San Nicola La Strada lungo viale Carlo III.
L'ipotesi, tra quelle fatte in questi giorni, viene definita, da ambienti vicini al Governo, come la meno probabile e ingenera solo allarmismo in città, mentre invece il problema dovrebbe essere affrontato con sistematicità da prefettura ed Enti locali.
Questa mattina, presso la sede cittadina del Partito Democratico in via Bronzetti, l'onorevole Stefano Graziano (PD) terrà, con inizio alle ore 11.00, una conferenza stampa per spiegare il suo No al Cie ed il senso della sua interrogazione presentata al Governo in proposito.
"La possibile decisione di realizzare all'ingresso di Caserta un Centro di accoglienza o di identificazione degli immigrati, di cui da giorni circolano notizie e indiscrezioni di rilievo nazionale" – ha anticipato nei giorni scorsi Graziano – "appare immotivata, non ponderata e indecorosa, oltre che avviata e definita senza la preventiva intesa con gli enti locali. L'errata individuazione" – ha aggiunto l'Onorevole Graziano – "risiede in vari ordini di motivi, tutti però riconducibili alla sfera complessiva delle valutazioni che si intende dare di Terra di Lavoro, confermandone gli aspetti negativi piuttosto che valorizzandone eccellenze e opportunità. L'area individuata, infatti, oltre che essere nelle immediate adiacenze di uno dei monumenti più importanti della Campania e d'Italia (fra l'altro nominato dall'ONU quale "patrimonio universale dell'Umanità", ndr.) visitato ogni anno da migliaia di turisti italiani e stranieri, è da tempo luogo di programmazione locale, regionale, nazionale e transnazionale per essere snodo di corridoi nazionali ed europei di importanza strategica, oltre che significativa testimonianza dei processi di sviluppo e di ricerca nel Mezzogiorno.
Faccio appello anche a tutti i parlamentari, in particolare a quelli del centrodestra, affinché non accada questo scempio. Se così non accadrà, i cittadini sapranno a chi assegnare la responsabilità. Su questa vicenda" – ha concluso Graziano – "ho già presentato un'interrogazione parlamentare".

http://www.casertanews.it/public/articoli/200903/art_20090301071048.htm

Autore: Nunzio De Pinto -

Carceri di plastica

mercoledì 4 marzo 2009

Firmiamo la petizione on-line!

A:
  • Presidente Camera dei Deputati della Repubblica Italiana - On. Gianfranco Fini
  • Presidente Senato della Repubblica Italiana - On. Renato Schifani
  • Presidente Parlameno Europeo – Mr. Hans G. Poettering
  • Presidente della Commissione Europea – Josè M. Barroso
  • Commissario per Giustizia, Libertà e Sicurezza e Vice-Presidente Commissione Europea – Mr. Jacques Barrot
  • Alto Commissario UNHCR – Mr. António Guterres

Dopo aver ascoltato o letto (anche grazie al documentario COME UN UOMO SULLA TERRA) le storie di rifugiati africani residenti in Italia sui viaggi attraverso la Libia, noi sottoscritti:
Riteniamo sia necessario fermare le violenze inflitte a migliaia di esseri umani arrestati e deportati dalla polizia libica, al fine di fermarne l’emigrazione verso l’Europa.
Riteniamo sia anche necessario chiarire le responsabilità italiane rispetto a questa situazione. Visti i noti e successivi accordi bilaterali con cui il Governo italiano sin dal 2004 sostiene finanziariamente e tecnicamente la Libia nel “controllo dei flussi di immigrazione clandestina”.

Pertanto con questa petizione chiediamo a

PARLAMENTO ITALIANO e
PARLAMENTO EUROPEO COMMISSIONE EUROPEA UNHCR
1. di promuovere una commissione di inchiesta internazionale e indipendente sulle modalità di controllo dei flussi migratori in Libia in seguito agli accordi bilaterali con il Governo Italiano. Inchiesta che sia anche finalizzata a chiarire le responsabilità italiane dirette o indirette, al fine di bloccare eventuali rinnovi degli accordi bilaterali, riconducendo la collaborazione con la Libia ad un quadro europeo ed internazionale.
2. di avviare rapidamente, vista l’emergenza della situazione, una missione internazionale umanitaria in Libia per verificare la condizione delle persone detenute nelle carceri e nei centri di detenzione per stranieri.

martedì 3 marzo 2009

01/03/2009 - Verona: «Il Cie? Va discusso in Provincia»

IMMIGRAZIONE FUORI LEGGE. Prosegue la discussione sulla realizzazione in una zona nel Veronese del centro di identificazione ed espulsione per i clandestini Galli Righi: «Il Consiglio unico deputato al dibattito». Da Villafranca un'altra voce si aggiunge al coro dei «no».
«Non c'è ancora nulla di ufficiale sull'eventuale dislocazione veneta del Cie, il Centro di identificazione e espulsione per clandestini che il Governo intende realizzare in ogni regione». Massimo Galli Righi, presidente del Consiglio provinciale, interviene sul dibattito che in questi giorni è divampato tra città e provincia.«In questa», prosegue Galli Righi, «fase è evidente come il Consiglio provinciale sia il luogo istituzionalmente deputato a questo dibattito. I nostri 36 consiglieri rappresentano le zone della provincia di cui possono riportare il sentore dei cittadini e dei sindaci. Ritengo utile affrontare la questione in una discussione pubblica che possa essere utile a tutti».«Per quanto mi riguarda», aggiunge Galli Righi, «infatti, sono convinto che si debba uscire dai singoli campanilismi e dai veti incrociati. E' evidente che Lampedusa e Crotone non possono farsi carico di tutti i clandestini che purtroppo arrivano nel nostro territorio nazionale. Se nel Veneto sarà scelta la provincia di Verona, e non è che lo desidero ardentemente, mi schiero tra coloro che lavoreranno per identificare una località idonea e non tra coloro che si limiteranno a ostacolare la realizzazione del Cie nel proprio territorio».«Mi schiero tra coloro che chiederanno al Governo un sito facilmente controllabile», conclude, «e controllato da agenti che si aggiungeranno a quelli che già lavorano sul nostro territorio. Chiedo garanzie allo Stato su questi punti, consapevole della necessità, come pubblico amministratore, di farsi carico dei problemi collettivi. Con scelte non con veti».Un «no» secco, invece, alla realizzazione del Centro nel territorio di Villafranca viene da Filippo Dalfini, 31 anni, vicepresidente del Consiglio comunale e consigliere di maggioranza di Progetto nord est (Pne).Dalfini è approdato al movimento fondato dallo scomparso imprenditore Giorgio Panto di recente, dopo essere stato espulso, lo scorso luglio, dalla Lega nord per aver dato origine al movimento «Giovani padani» locale senza l'autorizzazione dei vertici del partito. Dalfini si dichiara pronto a dar battaglia dentro e fuori il Consiglio comunale se il ministero dell'Interno confermerà l'intenzione di aprire il Cie a Villafranca. Attraverso un comunicato Dalfini fa sapere che è intenzionato a proporre, nella prossima seduta consiliare, «un ordine del giorno nel quale si possa chiarire che la comunità di Villafranca non intende accettare scelte e decisioni calate dall'alto su argomenti di così importante rilevanza». Dalfini annuncia che la protesta andrà oltre la presentazione del voto di censura ai consiglieri di maggioranza e minoranza. «Sono pronto», aggiunge, «a mobilitare la cittadinanza e gli iscritti della sezione comunale del Pne per protestare contro l'apertura del centro di accoglienza non appena giungeranno notizie più precise sulla sua esatta collocazione». Poi aggiunge: «Martedì prossimo, alle 18, riuniremo nella sala consiliare di Sommacampagna il direttivo provinciale del nostro movimento ed assieme a Mariangelo Foggiato, consigliere regionale del Pne, coordineremo le iniziative che intraprenderemo contro le decisioni del Governo». Infine Dalfini non risparmia una frecciata al comportamento nella vicenda tenuto dal suo ex partito, la Lega nord. «Secondo me», conclude il vicepresidente, «a livello nazionale il partito di Bossi ha perso il lume della ragione e a livello comunale come al solito non muove un dito a difesa dei propri cittadini». F.T.

http://www.larena.it/stories/Home/165211/

Regione Marche, no a C.I.E. a Falconara Marittima

Ancona, 23 feb. - (Adnkronos) - ''Sulla possibilita' di costruzione di un Centro di identificazione ed espulsione per i cittadini immigrati, la nostra e' una posizione chiara, coerente e motivata da ben cinque anni. Vale a dire, in tempi non sospetti''. Lo afferma l'assessore regionale all'Immigrazione e ai Servizi sociali, Marco Amagliani, contrario a questi Centri, intervenendo nel dibattitoche si e' aperto quando il Governo ha individuato Falconara Marittima (Ancona) come sito idoneo per la realizzazione di un Centro. Un 'no' espresso, per tutto il territorio marchigianao, anche alla modifica alla legge regionale sull'immigrazione, che, a giorni, andra' in Consiglio regionale. ''Il Consiglio regionale delle Marche -spiega Amagliani in una nota- in una mozione approvata nella scorsa legislatura, le considerava gia' 'strutture lesive dei diritti universali delle persone', in primo luogo della liberta' personale. Lo stesso Consiglioregionale si dichiarava 'indisponibile alla costruzione e alla presenza sul proprio territorio di Centri di permanenza temporanei'. La stessa mozione impegnava la Giunta regionale 'ad operare in tutte le sedi affinche', in nessun luogo del territorio regionale, tali strutture' potessero 'essere realizzate o attivate'. Ed e' con questo stesso spirito e volonta' che ho partecipato, in rappresentanza della Regione Marche, al forum 'Mare aperto, idee per aprire le frontiere e chiudere i Cpt', tenuto a Bari nel luglio del 2005''. Dal forum, ricorda Amagliani, ''e' uscito un documento finale incui le 14 Regioni presenti si sono impegnate ad affrontare il tema dell'immigrazione con umanita' e giustizia, consapevoli che quella delclandestino e' una condizione e non un reato, che va combattuta cioe' la clandestinita' e non la persona. L'immigrazione non puo' essere affrontata come una questione di 'ordine pubblico' spesso affidata alla disciplina di legislazioni emergenziali. Si tratta, invece, di affrontare con realismo e, cioe' nel pieno rispetto delle leggi, le grandi problematiche dell'accoglienza, dell'inclusione, dell'interculturalita'''.

http://www.stranieriinitalia.it/adn_kronos-immigrati_regione_marche_no_a_cie_a_falconara_marittima_7177.html

25/02/2009 - Nuovo centro C.I.E. in Toscana?

ASCA) - Roma, 25 feb - Un nuovo centro di identificazione degli immigrati (CIE) in Italia, da costruire in Toscana? ''Istituzionalmente non ne so nulla''. Lo ha detto oggi il presidente della regione Toscana, Claudio Martini, dai microfoni di Radio 24.''Questi centri sono del tutto inefficaci - ha detto -, non realizzano alcun beneficio concreto nella lotta alla clandestinita' e non sono un grande esempio di tutela dei diritti e della dignita' delle persone. Inoltre dal punto di vista istituzionale non ne so nulla. Abbiamo chiesto da tempo chiarimenti al governo ma non c'e' stato alcun tipo di rapporto e coinvolgimento. Messa cosi' - ha proseguito Martini - cioe' un progetto chiuso, blindato, questo si' all'insegna della clandestinita', da realizzare sul territorio non mi vede disponibile a collaborare. Se ci vengono proposti modelli a scatola chiusa, io dico lo facciano se ne hanno la forza e via. Se insomma dal governo si dice che 'la competenza e' nazionale e decidiamo noi quello che vogliamo', io posso solo rispondere 'auguri'''.
http://www.facebook.com/ext/share.php?sid=70538607628&h=s-qC8&u=3XOkT

domenica 1 marzo 2009

Oggi 1° marzo 2009

Anche oggi sono sbarcati numerosi continers destinati alla Base Loran.
I lavori procedono a grande velocità.
Se solo si fosse usata un centesimo di tanta efficienza per costruire strade e scuole!!!