appello

Appello a tutti...

Quest'anno il Lampedusa in Festival è arrivato alla sua terza edizione. Con molto entusiasmo stiamo portando avanti questa iniziativa che riteniamo sia importante per Lampedusa, i lampedusani e tutti coloro che amano l'isola. Purtroppo, anche quest'anno, dobbiamo fare i conti con le nostre tante idee e i nostri pochi fondi per realizzarle.

Chiediamo a tutti coloro che credono nel Lampedusa in Festival e nel lavoro che Askavusa sta facendo -rispetto all'immigrazione e al territorio di Lampedusa- di dare un contributo, anche minimo, per permettere al Festival di svolgere quella funzione di confronto e arricchimento culturale che ha avuto nelle passate edizioni.

Per donazioni:
Ass. Culturale Askavusa
Banca Sant'Angelo
IBAN: IT 06N0577282960000000006970

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venerdì 27 febbraio 2009

Oggi 27 febbraio 2009

Oggi abbiamo tentato di opporci all'ingresso nella ex base Loran (futuro C.S.P.A. o C.I.E? attendiamo che Maroni decida) dei primi due camion con containers. Eravamo solo 14. L'arrivo dei containers, infatti, è stato mantenuto segretissimo. Casualmente lo abbiamo saputo ieri in tarda serata ma non siamo riusciti ad avvertire che quei pochi che eravamo. Sarebbe troppo lungo spiegare come è andata. Diciamo che abbiamo discusso per più di due ore con poliziotti in tenuta antisommossa, digos e vicario del questore. L'unica arma che abbiamo è la parola. Però con quelle riusciamo a vincere le nostre battaglie.
Il problema sarà vincere la guerra.

Presentazione

Il circolo ASKAVUSA è frutto anche degli avvenimenti degli ultimi mesi.
Ciò che è accaduto, infatti, ha fatto sì che il comune desiderio di riunirsi per creare occasioni di incontro e di conoscenza, assumesse una consapevolezza nuova e profonda.
La consapevolezza che la difesa dei diritti di noi isolani non può prescindere dalla tutela dei diritti fondamentali di qualsiasi essere umano.
Questa enunciazione di principio si è trasformata in realtà a Lampedusa.
Solo quando l’azione di governo ha finito con l’incidere sui nostri diritti, abbiamo capito che tutti devono ergersi a difensori dei diritti di tutti.
È come se fino a ieri ci fossimo limitati a condannare l’uso dei manganelli contro i migranti, ma solo nel momento in cui quegli stessi manganelli sono stati usati contro di noi avessimo davvero preso coscienza della necessità di bandire tutti i manganelli, se non dal mondo, almeno dalla nostra isola.
Il punto di partenza è riuscire a trasmettere questa idea: ogni essere umano è una persona, titolare di diritti inviolabili ed universalmente riconosciuti.
E per far sì che ogni essere umano diventi persona è necessario innanzitutto creare occasioni in cui si entri in relazione con l’altro, momenti nei quali sia possibile “conoscere”, confrontarsi e scegliere.

In quest’ottica uno degli obiettivi principali dell’associazione deve essere quello di ottenere l’autorizzazione ad avere accesso al centro. Ciò al fine di rendere possibile un controllo sul rispetto dei diritti umani, in piena autonomia.
Inoltre (specie nell’ipotesi in cui il periodo di permanenza degli “ospiti” dovesse essere prolungato oltre le 48 ore), lo svolgimento di attività culturali per e con gli “ospiti” sarebbe funzionale all’esigenza di reciproca conoscenza e scambio culturale: lezioni di italiano ai migranti, attività ludico-ricreative per i bambini, eventi sportivi e di spettacolo.

Consci delle difficoltà e delle limitazioni insite nello svolgimento delle attività esclusivamente all’interno del centro, l’associazione mira poi a promuovere attività che coniughino lo sviluppo culturale ed economico dell’isola all’obbiettivo dell’integrazione e della conoscenza tra popoli. Il primo progetto su cui i componenti dell’associazione si ritengono sin da adesso impegnati è lo svolgimento di un festival internazionale di cultura mediterranea, che sia spunto per creare occasioni di dibattito e di incontro con i musicisti, i cineasti e gli scrittori dei vari paesi del bacino del mediterraneo e dell’africa sub sahariana.
La collocazione del festival in un periodo di bassa stagione farà sì che venga attirato sull’isola un turismo culturale e qualificato.
Siamo grati di questo incontro con voi, e ci auguriamo che possa essere la premessa per una futura collaborazione reciproca, ispirata ai valori di cui siete portatori, che noi condividiamo, e per l’affermazione dei quali ci impegniamo a renderci parte attiva.

Il popolo delle miniere - Il 3 febbraio, di nuovo alla sbarra per il processo d’appello i ribelli del fosfato tunisino

da: Il Manifesto del 29.01.2009
di Omeyya Seddik

GAFSA · «Quello che fanno è inaccettabile. Di fronte a Dio e di fronte agli uomini», dice Yasmina Slama-Hlaimi. Si riferisce al trattamento che le autorità hanno riservato al popolo delle miniere. E aggiunge: «Finché non sarà rispettato il diritto, finché non verrà migliorata la condizione dei disoccupati, delle donne, degli operai, dei giovani nelle università, finché non cesseranno le ingiustizie e la corruzione, noi non ci fermeremo.
Finché dovremo lottare, quelli di noi che moriranno saranno dei martiri e quelli che sopravviveranno saranno felici… Preferisco che dieci di noi muoiano perché quaranta possano vivere degnamente, piuttosto che morire tutti in silenzio a poco a poco».
Slama-Hlaimi ha quasi settant’anni, è vedova di un minatore e ha tirato su da sola una figlia e sei maschi a Redeyef.
Questa città della regione di Gafsa, nel sudovest vicino alla frontiera algerina, è il principale focolaio di rivolta del bacino minerario del fosfato tunisino.
Da gennaio 2008, un movimento di rivolta di grande portata ha scosso questa regione di oltre 300.000 abitanti, che è fra le più povere del paese e ha un tasso di disoccupazione ufficiale pari al doppio della media nazionale. La Compagnia dei fosfati di Gafsa, principale datore di lavoro della regione, assume sempre di meno, rende precaria la maggior parte della manodopera e distribuisce qualche posto di lavoro stabile in base a un sistema di corruzione e di nepotismo gestito insieme ai dirigenti del Partito al potere e ad alcuni burocrati sindacali. La Compagnia, che sfrutta la principale risorsa naturale del paese da oltre un secolo, è stata gestita a lungo dal potere francese secondo la logica predatrice tipica del rapporto coloniale (quella di uno sfruttamento intensivo delle risorse e della manodopera locale, che non si preoccupa della riproduzione delle condizioni sociali di vita e di produzione, che non investe localmente né sviluppa servizi e infrastrutture pubbliche).
Quando, sotto il protettorato francese, gli abitanti della regione si opposero alla sorte che gli era riservata, l’esercito tirò sulla folla. Così accadde durante lo sciopero dei minatori del marzo 1937, la cui repressione fece 17 morti.
Nel marzo 1956, la Tunisia ottenne l’indipendenza politica, i francesi se ne andarono e il potere del presidente Burghiba e poi quello del presidente Ben Ali applicarono al bacino minerario di Gafsa una politica poco diversa da quella dei loro predecessori. Durante tutto il XXmo secolo, il popolo delle miniere si è costruito una lunga tradizione di lotte anticoloniali e operaie. Dall’inizio del 2008, ha saputo organizzare un movimento molto popolare che ha riunito diverse categorie sociali: disoccupati, lavoratori precari, donne e vedove di minatori, giovani studenti e liceali, operai, insegnanti... Insieme hanno portato avanti rivendicazioni chiare in merito alle politiche del lavoro e dell’investimento, alle questioni ambientali, ai servizi sociali o ancora contro la corruzione. È il movimento sociale più ampio, più democratico e più radicale che il paese abbia conosciuto da decenni.
Per timore che il movimento si estendesse ad altre regioni del paese, il potere tunisino ha cominciato col sottomettere il bacino minerario a un vero e proprio assedio poliziesco e militare.
In seguito ha dato la stura a una feroce repressione: sequestri, detenzioni arbitrarie, condanne pesanti, violente cariche poliziesche che hanno già provocato due morti… Gli abitanti hanno tenuto duro, la loro determinazione e la loro solidarietà si sono rafforzate oltre ogni previsione e contro tutti i tentativi messi
in atto dal potere.
Giovedì 11 dicembre si è svolto il processo detto «dei 38» in cui i principali animatori del movimento sono stati giudicati per «associazione a delinquere costituita alfine di turbare l’ordine pubblico, di attentare alle istituzioni, alle strutture, ai beni pubblici e privati». L’udienza si è svolta in presenza di centinaia di poliziotti armati fino ai denti. Gli avvocati si son visti rifiutare tutte le richieste di produrre elementi o testimonianze a discarico, non c’è stata alcuna arringa, né deposizione dei testimoni, né requisitoria dell’accusa...
Dopo un’interruzione dell’udienza di dodici ore, il giudice si è presentato in aula in piena notte, visibilmente terrorizzato malgrado (o forse per?) la presenza di centinaia di agenti in civile e in uniforme. Ha annunciato che il verdetto era stato emesso, ma ha rifiutato di comunicarne i termini pubblicamente e si è ritirato tra le strofe dell’inno nazionale cantato dagli imputati e fra le proteste degli avvocati. In quella situazione, il principale portavoce del movimento, il sindacalista insegnante Adnane Haji ha dato il la con uno slogan, che è stato ripetuto a lungo: «Fermezza e determinazione di fronte al potere delle mafie!». Gli avvocati hanno dovuto recarsi in cancelleria per conoscere l’entità delle condanne emesse: fino a dieci anni e un mese di carcere per i sindacalisti, gli insegnanti, i disoccupati, gli operai e gli studenti che hanno avuto un ruolo propulsivo nel movimento. Dopo aver appreso il verdetto, il movimento ha ripreso le manifestazioni nella città di Redeyef, nonostante l’intensificarsi delle retate di polizia e l’aumento della
repressione, che ha portato a molti arresti.
«Fino a quando dovremo vivere in stato di assedio? Cosa sta succedendo? Siamo forse a Gaza o a Falluja?», si chiede Slama-Hlaimi, «la polizia tratta i nostri figli come i sionisti trattano gli arabi».
Due dei suoi figli sono fra i condannati nel processo dei 38. Tarek, il maggiore, insegnante e sindacalista ha preso dieci anni e un mese; Harun, il più giovane, studente, sei anni. Entrambi sono sottoposti al carcere duro e hanno subito trattamenti simili alle torture. Due degli altri quattro figli di Slama-Hlaimi sono sempre a Redeyef, Moussa e Omar. Quest’ultimo, maestro elementare, portatore di un grave handicap fisico, è stato picchiato diverse volte, arrestato e condannato col beneficio della condizionale. Gli altri due, Muhammad e Abdallah, hanno dovuto partire per l’Europa per guadagnarsi degnamente da vivere e per mantenere la famiglia rimasta al paese. Oggi sono operai edili a Nantes, in Francia, uno di loro è ancora un lavoratore senza documenti.
I figli di Slama-Hlaimi sono come tanti altri giovani tunisini della regione mineraria o di altre regioni della Tunisia: l’alternativa per loro è di sottomettersi a una vita di povertà, disoccupazione e persecuzioni poliziesche oppure lottare. Che lottino contro un potere repressivo e corrotto al loro paese o che si battano contro le guardie di frontiera e contro i pericoli del mare in direzione di «Lambadouza» (Lampedusa), agli occhi dei loro cari sono combattenti per la giustizia e per la libertà.
Oggi, la situazione nel bacino minerario è sempre tesa. Dopo un primo rinvio, il 13 gennaio, gli abitanti aspettano la data del processo di appello dei 38 di Redeyef, prevista per il 3 febbraio.
Per tre settimane, la situazione sociale nella regione e nell’insieme del paese è stata scandita dall’ampiezza del movimento di solidarietà popolare nei confronti di Gaza, che le autorità hanno duramente represso. Nella regione di Gafsa, martedì 6 gennaio è stato organizzato uno sciopero generale di sostegno al popolo e alla resistenza palestinese. Uno sciopero molto seguito malgrado le misure ufficiali messe in atto per farlo fallire. Nelle manifestazioni che si sono moltiplicate in tutto il paese (dei liceali, degli studenti, dei sindacalisti, dei partiti e delle associazioni indipendenti, degli avvocati), gli slogan più frequenti univano l’omaggio al popolo palestinese di Gaza e quello agli abitanti del bacino minerario di Gafsa.
(Traduzione di Ermanno Gallo)

Tunisia, la rivolta del «popolo delle miniere» - Una roccaforte operaia nel bacino di Gafsa

luglio 2008
di Karine Gantin e Omeyya Seddik*

Con l'arresto a fine giugno di diversi dirigenti del movimento di protesta della città di Redeyef, accusati di reati gravi (costituzione di banda armata, sovvertimento dell'ordine pubblico, violenze su rappresentanti dello stato e così via) e sottoposti a duri interrogatori, il potere tunisino cerca di soffocare una mobilitazione che da gennaio riunisce tutta la popolazione del bacino minerario di Gafsa.

«Poiché vogliono tanto questa città, gliela lasciamo!» Arrabbiate, le donne di Redeyef, nel bacino minerario di Gafsa, hanno deciso mercoledì 7 maggio 2008 di abbandonare il paese. Molti abitanti «dimissionari» sono scesi in strada con un bagaglio improvvisato per protestare contro l'invasione della loro città da parte della polizia. Ma le forze dell'ordine mettono in guardia la popolazione: se andranno in montagna verso l'Algeria, saranno accusati di tradimento, come gli abitanti del villaggio vicino che avevano chiesto asilo politico a quel paese qualche settimana prima. Così la popolazione fa marcia indietro, convinta dai membri del comitato negoziale interpellato da un potere locale disorientato. L'argomento avanzato ha convinto questa gente: bisogna rimanere per continuare la lotta.Dall'inizio di quest'anno, a 400 chilometri a sud-ovest di Tunisi, la popolazione di questa roccaforte operaia, spesso ribelle nel passato (1), si sta costruendo la propria storia in una rivolta compatta, rabbiosa e orgogliosa. Una popolazione che affronta unita la strategia governativa fatta di isolamento, di soprusi polizieschi e di controllo dei media.Tutto comincia il 5 gennaio 2008, giorno in cui sono pubblicati i risultati, ritenuti falsi, del concorso di assunzione della Compagnia di fosfati di Gafsa (Cpg), l'unico motore economico della regione.Giovani disoccupati occupano la sede regionale dell'Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt) a Redeyef. A loro si uniscono le vedove dei minatori e le loro famiglie, che montano delle tende davanti all'edificio. Il movimento si estende rapidamente. Operai, disoccupati, studenti e abitanti moltiplicano gli scioperi, le azioni, gli incontri.In una situazione di grande povertà e di inflazione, tutti protestano contro la corruzione di un sistema locale nepotistico e contro una politica dell'occupazione iniqua.Redeyef è vicina alla frontiera algerina, e come le altre città del bacino minerario di Gafsa (Oum Larayes, Metlaoui, El Mdhilla, ecc.), vive sotto il controllo della Cpg, creata nel 1897 intorno ai giacimenti scoperti dal francese Philippe Thomas (veterinario militare, direttore del penitenziario agricolo locale e geologo dilettante). Fin dall'inizio l'estrazione delle ricchezze del sottosuolo è fatta secondo i metodi tipici del modello coloniale (2): accaparramento delle terre attraverso l'espropriazione brutale delle popolazioni locali; sfruttamento intensivo delle risorse naturali; estrazione con un alto consumo di vite umane e con una forte produzione di rifiuti inquinanti; rapporti di lavoro e di potere fondati su relazioni clientelari, di clan e familiari (3). Fosfato, clientelismo e corruzione La maggior parte di questi aspetti sono sopravvissuti alla decolonizzazione in forma rinnovata. La Cpg, che si è fusa nel 1996 con il Gruppo chimico tunisino (Gct), rimane il principale datore di lavoro della regione. Nel corso degli ultimi 25 anni la modernizzazione della produzione, la sostituzione progressiva delle miniere in galleria con quelle a cielo aperto ha diminuito la durezza del lavoro e il tasso di mortalità fra gli operai. Ma questa modernizzazione, accompagnata dall'applicazione del piano di aggiustamento strutturale, ha ridotto di circa il 75% gli effettivi della compagnia.Oggi solo cinquemila persone lavorano direttamente alle dipendenze della Cpg e beneficiano di uno statuto e di condizioni di lavoro privilegiate in una regione dove la disoccupazione interessa il 30% della popolazione attiva (il doppio del tasso nazionale), secondo cifre ufficiali piuttosto discutibili. Intorno alla compagnia gravitano diverse imprese di subappalto, con i loro lavori precari e sottopagati.Il commercio al dettaglio, in particolare con l'Algeria, completa il quadro del mondo lavorativo della regione. Per trovare lavoro, c'è chi rischia la vita attraversando il Mediterraneo; altri invece vanno a vivere nelle periferie povere delle città della Tunisia «utile», quelle della costa.I 5 mila posti della compagnia e i fondi destinati alla riconversione sono gestiti in stretta collaborazione con l'Ugtt. Fino a qualche anno fa la stabilità della regione era ottenuta con una modesta redistribuzione dei grandi benefici prodotti dall'industria di fosfati, secondo dei sottili equilibri di clan e familiari garantiti dai dirigenti regionali della confederazione sindacale e dal partito al potere, il Raggruppamento costituzionale democratico (Rcd). Questi dirigenti erano al tempo stesso i rappresentanti o gli interlocutori delle principali tribù della regione, gli Ouled Abid e gli Ouled Bouyahia. La progressiva diminuzione delle risorse da distribuire e la diffusione della corruzione, mentre il prezzo internazionale del fosfato è salito alle stelle, hanno rotto questi equilibri. La direzione regionale dell'Ugtt è diventata il centro di un'oligarchia che si limita a distribuire fra gli amici e i parenti diretti le briciole della rendita del fosfato.Questa struttura è il rappresentante locale più potente di quello che gli abitanti vedono ormai come un potere «esterno» e ingiusto.«Noi, il popolo delle miniere, non siamo mai ingiusti, ma se sono ingiusti con noi, allora...», la frase termina con un insulto. Lo striscione è esposto a una delle entrate di Redeyef, in un quartiere povero ed emarginato, teatro degli scontri recenti con la polizia.Da gennaio la mobilitazione è continuata ininterrottamente: le azioni dei disoccupati, dei laureati senza lavoro sono accompagnate dalle occupazioni e dalle manifestazioni nelle quali si ritrova tutta la popolazione. Le proteste delle famiglie degli invalidi della compagnie e dei morti in miniera si uniscono alle azioni degli operai licenziati.Le proteste delle madri i cui figli o mariti sono in prigione in seguito alle prime manifestazioni hanno portato a uno sciopero generalizzato che coinvolge anche i piccoli commercianti.La notte i ragazzi pattugliano la città per proteggerla, dopo aver suonato l'adunata lanciando sassi contro le strutture metalliche di un ponte; sono i loro «tamburi di guerra» e fanno ricorso a un vocabolario che ricorda le tradizioni delle tribù guerriere, pronti ad affrontare i poliziotti o a rubare i loro sandwich per redistribuirli.Il tono generale riflette un'impressionante coesione popolare che le forze dell'ordine non riescono a rompere. Nonostante il controllo statale dei media, la sollevazione di questa regione isolata rappresenta il più lungo movimento sociale, il più potente e il più maturo della recente storia della Tunisia.Il potere ha risposto a questa agitazione con una repressione sempre più brutale, che ha fatto almeno due morti, decine di feriti e numerosi arresti. Alcune famiglie sono state trattate con violenza e molte proprietà sono state saccheggiate. In giugno il ricorso a unità blindate dell'esercito ha rafforzato l'assedio del bacino minerario. L'escalation della violenza di stato si manifesta con il ricorso alle armi, con la moltiplicazione dei sequestri di giovani per interrogatori e arresti arbitrari e con rastrellamenti militari nelle montagne circostanti, allo scopo di ritrovare chi cerca di sfuggire alla tortura.Diversi gruppi di giovani hanno già subito dei processi a porte chiuse.La gravità delle pene è molto arbitraria e varia da un processo all'altro, segno che il potere esita sulla strategia da seguire.L'opposizione a Tunisi e i comitati di sostegno a Nantes, dove vive un'importante comunità immigrata originaria di Redeyef, a Parigi(4) e a Milano si battono per rompere il blocco dell'informazione. Ma la mobilitazione rimane circoscritta. Politicamente debole, passata per molto tempo sotto il rullo compressore di un regime di polizia, la società civile fa fatica a reagire. Il potere parla di questi eventi solo per accusare gli «elementi perturbatori». Forse per questo la rivolta non è andata oltre la città di Feriana, nel vicino governatorato di Kasserine.A Redeyef il vento della rivolta ha portato alla creazione di un nuovo quotidiano. La sede locale dell'Ugtt, in pieno centro, è stata occupata sotto il naso della vicina sottoprefettura, ed è diventata il quartier generale degli abitanti in rivolta. Gli uomini della direzione regionale dell'Ugtt hanno cercato di riprenderla chiudendola con dei lucchetti, ma la popolazione ne ha imposto la riapertura.Al pianterreno dell'edificio, dove si svolgono gli incontri, il caffè serve da punto di ritrovo permanente. Lo spiazzo accoglie le riunioni con gli oratori che parlano dal balcone al primo piano. Nel corso di queste riunioni la presenza delle donne è significativa. Di fronte si distribuiscono volantini e giornali dell'opposizione. Qui si trovava in giugno il chiosco di Boubaker Ben Boubaker, detto l'«autista», laureato disoccupato e fruttivendolo, noto per essere l'autore di una lettera ironica sulla soluzione del problema della disoccupazione indirizzata al ministro dell'Educazione. Di recente la polizia ha fatto irruzione in casa sua, e la sua abitazione è stata semidistrutta.Come altri oppositori, Boubaker è fuggito in montagna.«Ben Ali, 2080». La lotta è politica «Dobbiamo ottenere un risultato positivo. La gente deve sapere che la lotta pacifica non è inutile. Altrimenti sarebbe catastrofico».Adnane Hajji, segretario generale del sindacato dell'insegnamento elementare nella città di Redeyef e figura carismatica del movimento, ha saputo mantenere l'unità al di là delle rivalità e dei clan. Questo dirigente gode di una grande popolarità, anche tra le donne e gli adolescenti; sa che questa avventura è già andata molto lontano e che qualunque tentativo di tornare indietro potrebbe avere conseguenze incontrollabili. Nella notte fra il 20 e il 21 giugno Hajji è stato arrestato in casa sua e incriminato. Gli altri animatori del movimento sono tutti ricercati.Per Hajji il problema rimane regionale. Anche se dall'inizio del movimento di protesta i cartelloni elettorali «Ben Ali 2009», che annunciano la prossima elezione presidenziale, sono spesso abbattuti dalla popolazione o modificati ironicamente in «Ben Ali 2080» o «Ben Ali 2500», in occasione delle manifestazioni o delle riunioni i militanti politici sono pregati di non parlare della loro appartenenza politica.In effetti nel bacino minerario la popolazione non crede molto a un cambiamento imminente alla guida del paese(5). Solo una forte campagna di solidarietà nazionale e internazionale, o un allargamento della contestazione ad altre regioni, potrebbe allentare la morsa del regime. Nel frattempo il movimento reclama la fine della repressione e l'apertura di veri negoziati per una soluzione onorevole della crisi. Si chiede l'annullamento dei risultati del concorso di assunzione considerato illegale, un programma di assunzione dei laureati disoccupati, il coinvolgimento dello stato nella creazione di grandi progetti industriali, il rispetto delle norme internazionali sull'ambiente e dei servizi pubblici accessibili ai più poveri (come l'elettricità, l'acqua corrente, l'istruzione e la sanità). Non a caso lo slogan del movimento è: «Determinazione e dignità»

note:* Rispettivamente giornalista e politologo, membro della Federazione dei tunisini per una cittadinanza delle due rive (Ftcr). Omeyya Seddik ha soggiornato sul posto durante il mese di maggio.(1) Si veda a proposito dello sciopero nel bacino minerario del marzo 1937 e della repressione violenta che provocò la morte di 17 minatori, il bel testo di Simone Weil, «Le sang coule en Tunisie», pubblicato nella raccolta Ecrits historique et politiques, Gallimard, Parigi, 1960. In questo testo la scrittrice polemizza con il Fronte popolare che afferma di difendere la classe operaia, mentre chiude gli occhi sui crimini compiuti contro di essa nelle colonie. Inoltre due anni dopo lo sciopero del 1978 si è avuta la «rivolta di Gafsa» nel corso del quale la regione è stata la base di un tentativo di colpo di stato. Si legga anche Khemais Chamari, «L'alerte tunisienne», Le Monde diplomatique, marzo 1980.(2) Si legga Paul Vigné d'Octon, La Sueur du bournous (1911), Les Nuits rouges, Parigi, 2001. L'autore è stato deputato dell'Hérault e relatore speciale dell'Assemblea nazionale sulla situazione delle colonie durante la III repubblica.(3) Sul sistema di controllo del territorio durante il protettorato e l'articolazione dei poteri tradizionali, si legga la tesi di dottorato di Elisabeth Mouilleau (1998), Fonctionnaires de la République et artisans de l'empire. Le cas des contrôleurs civils en Tunisie, 1881-1956, L'Harmattan, Parigi, 2000.(4) C/o Ftcr, 3, rue de Nantes, Parigi 19°, www.ftcr.eu (5) Sull'origine e sull'evoluzione del potere di Zine El-Abidine Ben Ali, si legga Kamel Labidi, «La lunga discesa all'inferno della Tunisia», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2006.(Traduzione A. D. R.)

giovedì 26 febbraio 2009

Io questa estate voglio andare in vacanza a Lampedusa

Voglio andarci perché ho visto i suoi abitanti in tv, festeggiare insieme ai migranti brevi attimi di libertà, perché li ho visti spezzare il pane, in un antico gesto, forse il più antico, che ha sempre unito le persone, indipendentemente dalla loro provenienza, dal loro status giuridico, dai loro documenti.


Perché non meritano di vedere il proprio territorio, le proprie strade, occupate e militarizzate come se le loro giuste e pacifiche rivendicazioni potessero essere affrontate con il manganello e con la divisa.


Voglio andarci perché mi hanno dato una lezione di civiltà, in un Paese in cui sembrano trionfare egoismi, barbarie, violenza e razzismo.


Voglio andarci perché nel freddo di gennaio, mi ha scaldato il cuore il valore civico della protesta dei suoi abitanti. Perché hanno vinto la logica della guerra fra poveri e sono stati solidali, hanno fatto prevalere l’accoglienza e la solidarietà con le donne e gli uomini migranti, stipati in condizioni disumane in un centro che doveva essere di primo soccorso e si è trasformato in una galera.


Voglio andarci, perché è un isola che non merita di vedersi privata del diritto ad essere parte dell’Europa, perché voglio girarla e ritrovare i volti e gli occhi della bella gente che invocava libertà e fratellanza.



Voglio andarci perché Lampedusa non può diventare il più grande carcere del Mediterraneo, vittima sacrificale di governi che non sanno e non hanno saputo mai, pensare ed attuare politiche sull’immigrazione valide e rispettose dei diritti umani.


Voglio andarci perché non voglio essere complice di chi vuole lasciare, ancora una volta, Lampedusa e i lampedusani, da soli, a pagare responsabilità non proprie.


Voglio andarci per impedire che il loro magnifico esempio, venga piegato con il ricatto e la concessione di bisogni di cui dovrebbero godere da sempre, tutte e tutti.


Voglio andarci, forse solo per potere dire a molte e molti di loro “grazie”.




I sottoscritti sono coscienti dell’urgenza della situazione a Lampedusa. Ormai da oltre un mese un migliaio di migranti sono trattenuti in condizioni indegne di una società civile, ignari della sorte loro riservata, su un’isola di appena 22 chilometri quadri nella quale vivono circa sei mila abitanti e dove sono già oggi presenti oltre un migliaio di agenti delle forze dell’ordine.Tutto ciò rende la situazione esplosiva per esclusiva responsabilità del governo italiano.I firmatari sono inoltre perfettamente consapevoli del fatto che il carattere civico, solidale, pacifico, fraterno e largamente condiviso della protesta lampedusana é una cosa preziosissima e molto fragile. La spontanea e straordinaria unità mostrata dai lampedusani nell’opporsi all’istituzione di un Centro di Identificazione ed Espulsione sull’isola e nel rivendicare al contempo i diritti spettanti loro in quanto cittadini italiani rischia di essere schiacciata da una politica sorda ed indifferente ai bisogni delle persone che dovrebbe servire.Il nostro appello è rivolto a quanti non intendono assistere passivamente a ciò che appare un’ennesima dimostrazione di disprezzo non solo dei diritti dei migranti ma anche della volontà dei cittadini di Lampedusa e Linosa di vivere dignitosamente; chiediamo a tutti di mobilitarsi immediatamente a sostegno della protesta tuttora in atto.



Primi firmatari :

  1. Andrea Camilleri, scrittore
  2. Roberto Alajmo, scrittore
  3. Nanni Balestrini, scrittore
  4. Rita Borsellino, associazione Libera
  5. Emanuele Crialese, regista
  6. Dario Fo, uomo di teatro, premio Nobel per la letteratura
  7. Mads Frese, giornalista danese
  8. Silvana Gandolfi, scrittrice per ragazzi
  9. Fabrizio Gatti, scrittore e giornalista
  10. Massimo Gaudioso, regista
  11. Margherita Hack, astrofisica
  12. Wilma Labate, regista
  13. Carlo Petrini, Fondatore e Presidente di Slow food
  14. Franca Rame, attrice e autrice di teatro
  15. Giuliana Sgrena, giornalista
  16. Paola La Rosa, avvocato, Lampedusana per scelta
  17. Carmelo Gatani, skipper, Lampedusano per scelta
  18. Omeyya Seddik, politologo, migrante tunisino

Per sottoscrivere l'appello inviare una mail al seguente indirizzo:

mailto:%20lampedusa.hurra@gmail.com