appello

Appello a tutti...

Quest'anno il Lampedusa in Festival è arrivato alla sua terza edizione. Con molto entusiasmo stiamo portando avanti questa iniziativa che riteniamo sia importante per Lampedusa, i lampedusani e tutti coloro che amano l'isola. Purtroppo, anche quest'anno, dobbiamo fare i conti con le nostre tante idee e i nostri pochi fondi per realizzarle.

Chiediamo a tutti coloro che credono nel Lampedusa in Festival e nel lavoro che Askavusa sta facendo -rispetto all'immigrazione e al territorio di Lampedusa- di dare un contributo, anche minimo, per permettere al Festival di svolgere quella funzione di confronto e arricchimento culturale che ha avuto nelle passate edizioni.

Per donazioni:
Ass. Culturale Askavusa
Banca Sant'Angelo
IBAN: IT 06N0577282960000000006970

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www.lampedusainfestival.com

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giovedì 28 maggio 2009

CINEFORUM ALL'APERTO

VENERDI 29 MAGGIO ALLE 21 : 45 IN VIA MAZZINI VERRà PROIETTATO IL FILM I CENTO PASSI

lunedì 18 maggio 2009

La Storia delle cose Pt. 1

Bellissimo video ad animazioni dell'ambientalista Annie Leonard che espone, con una tecnica grafica molto accattivante, i grandi limiti dell'attuale sistema economico statunitense, ma le stesse tesi possono essere facilmente estese a tutte le economie moderne.
Una analisi sofisticata e contemporaneamente estremamente lineare, ti fa molto riflettere sull'attuale modello di ciclo economico dove la concatenazione di Estrazione > Lavorazione > Distribuzione > Consumo > Smaltimento non é tecnicamente sostenibile nel tempo e comporta inevitabilmente gravi conseguenze ecologiche, sociali, politiche e economiche.

La Storia delle cose Pt. 2

La Storia delle cose Pt. 3

ISOLE DI PLASTICA






Il New York Times dedica un servizio al suo successo silenzioso e alle polemiche LO CHIAMANO Pacific Trash Vortex, il vortice di spazzatura dell'Oceano Pacifico, ha un diametro di circa 2500 chilometri è profondo 30 metri ed è composto per l'80% da plastica e il resto da altri rifiuti che giungono da ogni dove. "E' come se fosse un'immensa isola nel mezzo dell'Oceano Pacifico composta da spazzatura anziché rocce. Nelle ultime settimane la densità di tale materiale ha raggiunto un tale valore che il peso complessiva di questa "isola" di rifiuti raggiunge i 3,5 milioni di tonnellate", spiega Chris Parry del California Coastal Commission di San Francisco, che è da poco tornato da un sopralluogo. Questa incredibile e poco conosciuta discarica si è formata a partire dagli anni Cinquanta, in seguito all'esistenza della North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale, prodotta da un sistema di correnti ad alta pressione. L'area è una specie di deserto oceanico, dove la vita è ridotta solo a pochi grandi mammiferi o pesci. Per la mancanza di vita questa superficie oceanica è pochissimo frequentata da pescherecci e assai raramente è attraversata anche da altre imbarcazioni. Ed è per questo che è poco conosciuta ai più. Ma proprio a causa di quel vortice l'area si è riempita di plastica al punto da essere considerata una vera e propria isola galleggiante. Il materiale poi, talvolta, finisce al di fuori di tale vortice per terminare la propria vita su alcune spiagge delle Isole Hawaii o addirittura su quelle della California. In alcuni casi la quantità di plastica che si arena su tali spiagge è tale che si rende necessario un intervento per ripulirle, in quanto si formano veri e propri strati spessi anche 3 metri. La maggior parte della plastica giunge dai continenti, circa l'80%, solo il resto proviene da navi private o commerciali e da navi pescherecce.
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Nel mondo vengono prodotti circa 100 miliardi di chilogrammi all'anno di plastica, dei quali, grosso modo, il 10% finisce in mare. Il 70% di questa plastica poi, finirà sul fondo degli oceani danneggiando la vita dei fondali. Il resto continua a galleggiare. La maggior parte di questa plastica è poco biodegradabile e finisce per sminuzzarsi in particelle piccolissime che poi finiscono nello stomaco di molti animali marini portandoli alla loro morte. Quella che rimane si decomporrà solo tra centinaia di anni, provocando da qui ad allora danni alla vita marina. che questo sta suscitando (link qui).

sabato 9 maggio 2009

C'è qualcosa di malato in noi

ARCI-ASKAVUSALampedusa
A Lampedusa si smontano i prefabbricati che dovevano "accogliere"(?) gli immigrati (Clandestini)(?) e costituire il Centro Identificazione ed Espulsioneche gli isolani hanno duramente contestato, si smonta perche i lavori sono stati riconosciuti abbusivi, si smonta perche non è vero che il governo fa quello che vuole, ci porova, ma se i cittadini intervengono in maniera decisa, riescono a sbloccare gli ingranaggi di una democrazia(?) arrugginitae al collasso.Ma mentre Lampedusa medita sul voto delle europee, del senso che la politica ha in questo scoglio in mezzo al mare più bello del mondo,mentre molti(me compreso) hanno già deciso di non votare per protesta, di rifiutare l'ultimo diritto rimasto a noi Lampedusani, il governo continua nella sua azione fuorilegge e disumana.I respingimenti di ieri però devono essere analizzati in un campo più ampio: una parte dell'Europa ha festeggiato ciò che è successo ieri, L'africa appare più lontana, le guerre, la fame, la mancanza di acqua, e tutte le altre piaghe che tormentano questo continente magnifico sembranosiano nate con l'Africa, non sento un dibbattito politico-culturale sui motivi che hanno ridotto l'Africa in questo stato, ogni tanto si sente qualche notizia che dovrebbe far riflettere, ad esempio che l'industria delle armi non risente la crisi, anzi è in espansione, i suoi profitticrescono, si moltiplicano, e questo anche nel nostro paese, (delle azioni di pace in medioriente)(?). Uno dei maggiori produttori di mine antiuomo.Non interessa a nessuno capire quello che si deve fare in Africa ?I conflitti per il controllo delle materie prime spesso sono alimentati dalle nazioni occidentali, cosi come fu fatto nascere il terrorismo in medioriente dall'America, ma vedete il male ritorna al mittente, è una legge inevitabile.Forse è il momento di mettere in discussione il sistema capitalistico-consumista che aliena l'uomo, lo disumanizza, lo rende privo di senso criticopauroso,che difende una fantomatica identità territoriale perche non ne ha una personale forte, ha bisogno di riconoscersi nei comportamenti degli altri, tutto ciò che è diverso lo può far cambiare(Migliorare ?)e questo lo escluderebbe dal meccanismo dei comportamenti rituali, impersonali,non televisivi.Abbiamo una grande opportunità, rivdere tutto alla radice, perche se siamo contenti di aver mandato centinaia di persone alla morte o peggio a torture e violenze, c'è qualcosa di malato in noi.Se aiutiamo la Libia a commettere crimini atroci C'è QUALCOSA DI MALATO IN NOI.Se a Milano ci saranno posti a sedere nei mezzi pubblici riservati ai milanesi c'è qualcosa di malato in noi.Se chi delinque non ha una pena adeguata al suo crimine c'è qualcosa di malato in noi.Se non proviamo almeno pietà(Rabbia)(?) per chi viene deportato in mare verso l'inferno c'è qualcosa di malato in noi.
Giacomo Sferlazzo.

martedì 5 maggio 2009

OPERAZIONE BRUSHWOOD: STORIA DI ORDINARIA REPRESSIONE

BRUSHWOOD: La lettera di Michele dal carcere Un anarchico in cattività'
Il Comitato 23 ottobre divulga la missiva di Fabiani. "Ero prigioniero anche prima... Sbagliano i marxisti"
Spoleto - 14/11/2007 12:26
"Sono Michele Fabiani, "detto Mec", come direbbero i giudici, eh eh. Vorrei che questo scritto girasse il più possibile, non so ancora se potrò fotocopiarlo o se dovrò ricopiarlo a mano per cercare di mandarlo il più possibile in giro. Dalla seconda media mi chiamano Mec perchè per spirito di contraddizione tifavo la Maclaren.... e così ho appena scoperto che di sfortune ne ho avute di 2 in 2 giorni: la macchina di Agnelli e Montezemolo vince i mondiali e io finisco in galera. Martedi 23 ottobre 5 brutti uomini (2 erano cosi' brutti che si sono messi il passamontagna) irrompevano in casa mia, la mettevano completamente sottosopra e mi arrestavano in base all'articolo 270bis (scritto dal ministro Rocco per Mussolini). I reati associativi come l'art. 270 bis e 270 permettono di arrestare qualcuno non per cio' che ha fatto, ma per come la pensa, perchè fa parte di qualche fantomatica associazione. Basti pensare che uno di noi 5, rinchiusi in isolamento giudiziario da quasi 4 giorni e da oggi in E.I.V., è accusato solo di aver fatto una scritta su un muro! Ci pensate? Tre volanti (a testa), i mitra, i passamontagna, la scorta aerea dell'elicottero, le telecamere, il carcere, l'isolamento, l'e.i.v., per una scritta su un muro! Sono poi stato portato alla caserma dei carabinieri di Spoleto e poi a quella di Perugia, infine da quella di Perugia al carcere. Il primo momento propriamente comico è stato il trasferimento tra la caserma di Perugia e il carcere: chi guidava la macchina, forse impressionato, si è sbagliato strada e abbiamo fatto 2 volte il giro intorno alla stazione ferroviaria. In carcere mi stanno trattando bene, non mi hanno mai toccato (in tutti i sensi, neanche per gli spostamenti). La cella è molto sporca, c'è un tavolo appeso al muro con un armadietto inchiodato ed un letto inchiodato per terra ed alla parete. Oggi è caduto l'isolamento e abbiamo anche la tv. Resta il divieto di comunicare tra noi, che è la cosa peggiore. Ho visto le immagini del TGR Umbria che eravate fuori durante gli interrogatori: eravate tanti! Sono stato tanto felice, purtroppo da dentro non vi abbiamo sentito. Ho risposto alle domande non perchè io riconosca un qualche valore alla magistratura, ma per il semplice motivo che nelle motivazioni del nostro arresto c'erano scritte talmente tante (omissis) che ho ritenuto importante contraddirle subito, pur senza essermi mai consultato con gli avvocati, per la corretta esposizione dei fatti, per la libertà di tutti noi. Talmente tante erano le falsità, le contraddizioni, gli errori grossolani che era di importanza strategica distruggerle immediatamente. Nessuno tema o si rallegri: io ero, sono e resto un prigioniero rivoluzionario. Lo ero, un prigioniero ed un rivoluzionario, anche prima di martedi: siamo tutti prigionieri, tutti i giorni. Quando ci alziamo la mattina per andare a lavorare, quando passiamo gli anni più belli della nostra vita sprecati su una macchina, quando facciamo spesa, quando non possiamo farlo perchè mancano i soldi, quando li buttiamo via i soldi per delle cazzate (vestiti, aperitivi, sigarette non c'è differenza) quando guardiamo la tv che ci fa il lavaggio del cervello, che cerca di terrorizzarci con morti, omicidi, rapine (quando in 15 anni gli omicidi sono diminuiti del 70%) così che noi possiamo chiedere piu' telecamere, piu' carceri, pene sicure, quando se c'è una pena davvero sicura a questo mondo è quella che incatena lo sfruttato alle sue condizioni. Io non ho mai detto "SONO UN UOMO LIBERO", in pochi possono dirlo senza presunzioni. Se io fossi un uomo libero, andrei tutti i giorni sulla cima del Monte Fionchi, in estate con le mucche e le pecore e in inverno con la neve, e dopo aver raggiunto faticosamente le cime...guardare a nord ovest, la valle Umbra o Valle Spoletino come si diceva una volta, poi a nord est la Valnerina e il Vettore quasi sempre liscio dietro, e poi via verso est tutti gli appennini che cominciano da lì, fino a sud dove ci sono quelle meravigliose foreste... E forse, ripensandoci, neanche lì sarei davvero libero. Perchè la valle Umbra è piena di cave, di capannoni, di fabbriche, di mostri che devono essere combattuti. Ma mancano gli eroi oggi mentre di mostri ce ne sono anche troppi. Quindi io non sono un uomo libero, il dominio non è organizzato per prevedere uomini liberi. Però sono un rivoluzionario, un prigioniero rivoluzionario. Io sapevo gia' di essere un prigioniero, prima che un giudice me lo dicesse. Certo, questa prigione è diversa da quella fuori: qui vedi tutti i giorni, in maniera limpida, simbolica e allo stesso tempo materiale quali sono i rapporti di forza del dominio; dove c'è chiaramente e distintamente l'uomo, con i suoi sogni, i suoi amori, il suo carattere, e il sistema, le sbarre, le catene, le telecamere, le guardie. Potremmo dire, ironicamente, che da un punto di vista politico-filosofico qui le cose sono piu' semplici: il sistema cerca di annientare l'individuo, l'individuo cerca di resistere. Ovviamente l'uomo qui sta peggio. E' inutile fare retorica. Dopo qualche giorno la gabbia te la trovi intorno alla testa, è come se avessero costruito un'altra piccola gabbietta, precisa precisa intorno alla tua testa. Con il cervello che ragiona ma non ha gli oggetti su cui ragionare, con la voglia incontenibile di parlare e non c'è nessuno, di correre e non c'è spazio, quando mi affaccio alla finestra vedo un muro con altre sbarre, non si vede un filo d'erba, una collina (neanche durante l'aria, che passo solo in una stanza piu' grande), fuori dalla tua gabbia c'è un altra gabbia. La mia paura è che questa sensazione mi rimanga anche quando esco. Che la lotta per non impazzire diventera' il fine della mia vita. Nel carcere "formale" l'uomo combatte contro se stesso, mentre nel mondo fuori il rivoluzionario deve combattere una guerra contro entita' oggettive. La mia paura è che ci si dimentichi di questi 2 livelli di scontro, che anche quando usciro' ci sarà questa gabbia intorno alla testa che mi ............ e mi dice di non prendere a calci la porta della cella e di mettermi ad urlare. Non solo l'uomo antropofizza il mondo, ma in galera l'uomo antropofizza anche se stesso: come distruggiamo le montagne, così qui distruggiamo la nostra mente, costruendo fantasmi contro cui scontrarci. Il rapporto è tutto mentale qui. E' di questo che voglio liberarmi, voglio uscire e continuare ad avere una capacità di analisi oggettiva della realtà. Qui questa capacità rischio di perderla. Mentre fuori, innaffiando un seme e facendo crescere una pianta, si ha un'interazione fisica con il mondo qui lo scontro è tutto psicologico. Lo scontro è fisico solo ad un primo livello, con i muri che non mi fanno uscire, ma in realtà la guerra è anche con i nostri fantasmi. I muri sono troppo materiali per essere reali. Sbagliano i marxisti quando riconducono tutto alla materia. La realtà è una sintesi in cui l'uomo colloca se stesso tra il mondo e le sue idee. In galera purtroppo questa sintesi è pericolosamente, patologicamente, troppo incentrata sulla mente. Ai compagni che scrivono che non trovano parole dico di trovarle queste parole che ne abbiamo troppo bisogno. Scriveteci a tutti e 5! Vorrei che qualcuno dicesse ad Erika che le mando un bacio.
Mec, Un anarchico in cattivita' 26/10/07"

PER NON DIMENTICARE!!!

Michele Fabiani, nato il 16 febbraio 1987, è un giovanissimo anarchico e filosofo di Spoleto (Perugia). Ha frequentato il liceo scientifico Alessandro Volta, impegnandosi nel movimento studentesco spoletino e anche, sin dall' adolescenza (14-15 anni), nel movimento anarchico e nel sostegno al prigioniero comunista Paolo Dorigo, allora detenuto proprio a Spoleto. I suoi scritti sono comparsi inizialmente su anarcotico.net, dove veniva pubblicato un foglio telematico intitolato "Il Rivoluzionario". Successivamente per una serie di incomprensioni con la redazione del sito si è trasferito su anarchaos, dove sono stati pubblicati numerosissimi suoi articoli, saggi e commenti. Michele è attivo anche nell'Associazione Vittime armi elettroniche-mentali, nelle lotte anticarcerarie e nell'elaborazione di nuove teorie anarchiche.
Dall'età di 14 anni ha studiato, da autodidatta, autori come Stirner, Heidegger, Goethe, Nietzsche, Bakunin, Hegel, Platone, Bonanno ecc. Il Razionale e l'Assurdo è la sua prima opera, scritta tra il gennaio e l'aprile 2005, a soli 18 anni.
Il 23 ottobre 2007, insieme ad altri 4 compagni-amici di Spoleto (Andrea Di Nucci, Dario Polinori, Damiano Corrias e Fabrizio Reali Roscini), è stato arrestato nella cosiddetta "Operazione Brushwood" (operazione boscaglia) con l'accusa di far parte di una cellula anarco-insurrezionalista denominata COOP-FAI (Contro ogni ordine politico – Federazione Anarchica Informale).
Il 18 luglio 2008, a Michele Fabiani sono stati concessi i domiciliari. Il 26 settembre Michele è stato messo in semilibertà, con obbligo di dimora nel comune di Spoleto e di rientro notturno dalle 21 alle 7. Dal 26 novembre 2008 il Mec (come lo chiamano gli amici) è finalmente libero. Nel frattempo (il 29/09/2008) Michele, Andrea, Dario e Daminao sono stati rinviati a giudizio; il processo è cominciato il 7 aprile presso la coste di assise di Terni, non vi partecipa Fabrizio poiché la sua posizione è stata stralciata.

lunedì 4 maggio 2009

Così i libici fermano i gommoni

Da La Repubblica
di Franco Viviano
RAS AJDIR (Libia) - Partono anche di giorno rischiando di essere arrestati, imprigionati e trattati come schiavi. Ma ci provano lo stesso e pagano anche di più perché i trafficanti libici di esseri umani stanno seminando il panico nelle sperdute campagne vicino al mare dove, dentro i capannoni, sono ammassati migliaia di nigeriani, sudanesi, eritrei, etiopi da mesi in attesa di partire per Lampedusa. "Adesso o mai più, tra poco Italia e Libia faranno dei pattugliamenti qui e sarà più difficile partire...", avvertono i trafficanti e molti disperati ci credono sul serio, pagano e partono, anche davanti ai bagnanti che prendono il sole sulle spiagge di Zaltan e Al Zuwarah, i primi due paesi libici che si incontrano una volta lasciato il confine tunisino: le spiagge da dove partono molti degli extracomunitari che arrivano a Lampedusa o a Malta. La nostra guida è un clandestino che ormai da anni vive in Libia e sa districarsi bene tra poliziotti tunisini e militari libici che lo conoscono bene perché fa il contrabbandiere e sa come oliare gli ingranaggi. Lui fa avanti e indietro tra Zaltan e Al Zuwarah. "Io non traffico con i clandestini, faccio contrabbando e basta, e quando posso li aiuto", dice, anche se il suo "aiuto" consiste nel portare, per conto dei trafficanti libici, acqua e generi alimentari nelle fattorie piene di extracomunitari. "Sono migliaia e migliaia, c'è un ricambio continuo, tanti partono, tanti arrivano". La guida ha girato un video col telefonino. "Guarda, guarda, ti possono interessare", dice prima di cliccare sul cellulare per mostrare il filmato. Non è un trucco, è tutto vero. "Le ho girate pochi giorni fa - racconta - ecco, adesso partono anche di giorno". Sono immagini uniche: in Libia è difficile muoversi, i militari di Gheddafi non scherzano, e alcuni di loro sono proprio gli organizzatori degli arrivi e delle partenze degli extracomunitari. Li sfruttano, li fanno lavorare come schiavi per mesi, anche per anni, e poi il misero stipendio che quei disperati guadagnano ritorna nelle loro tasche per pagare il viaggio in mare dalla Libia a Lampedusa. E come in tutte le organizzazioni ci sono clan concorrenti, gruppi di trafficanti che si accaparrano con la complicità di militari e poliziotti libici la "carne umana" da buttare in mare.
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Il video, anche se girato con il telefonino è chiarissimo. È stato registrato poche settimane fa, tra la fine di marzo e l'inizio d'aprile. La spiaggia è sempre quella, Al Zuwarah, poco dopo le dieci del mattino. Da dietro le dune di sabbia spunta un gommone nero di sei, sette metri, viene buttato in mare davanti a decine e decine di bagnanti libici che prendono il sole. Improvvisamente arrivano una settantina di uomini ("neri", così li chiamano i libici), corrono sulla spiaggia e poi in acqua per salire sul gommone. Si affollano, si stringono, ci sono donne, bambini ed uomini, con loro portano soltanto qualche piccola cosa, una Bibbia o un Corano e, chi può, gli ultimi spiccioli che gli sono rimasti. Lo scafista è con loro, li aiuta a salire e a spingere il gommone in mare, dove a bordo ci sono anche una decina di taniche di plastica piene di benzina per affrontare il lungo viaggio. Benzina che spesso fuoriesce dai bidoni e, mescolandosi con l'acqua di mare, provoca ustioni anche gravissime. Si parte verso Lampedusa, l'isola della speranza, "la porta della vita" la chiamano in molti. Alcune ore dopo la partenza del primo gommone eccone un altro che spunta all'improvviso come il primo sulla spiaggia dove donne e bambini libici giocano con la palla o fanno castelli di sabbia. Nessuno si scompone, da quella spiaggia ne hanno visti partire a centinaia e qualcuno, mosso da pietà, li saluta pure mentre prendono il largo. Ma questo secondo viaggio ha un imprevisto. All'improvviso spunta una jeep con a bordo tre o quattro militari libici. Due di loro scendono armati di mitra e si dirigono verso il punto dove il secondo gommone sta per partire. Una cinquantina sono già a bordo, altri stanno per salire. I militari scendono in mare, l'acqua è bassa e gli arriva alle ginocchia, uno spara un colpo sul gommone per farlo afflosciare, l'altro intima a tutti di scendere e minaccia di sparare sotto gli occhi dei bagnanti. Sul gommone si scatena il caos, i clandestini si buttano nuovamente in mare e tentano la fuga guadagnando la spiaggia da dove erano venuti. I militari sparano ancora in aria per fermarli: molti riescono a scappare, altri no, come il presunto "pilota" del gommone che viene bloccato dai militari mentre il trafficante libico va via tranquillamente, pronto ad organizzare un'altra partenza di disperati. Quelli che erano partiti qualche ora prima ormai sono ad alcune migliaia di distanza dalle coste libiche, il tempo è buono e il mare forza 2-3. Si dirigono verso i fari delle piattaforme petrolifere e seguono una rotta che è decisa dalle onde del mare e dal vento. Qualcuno più anziano, di giorno sta con gli occhi puntati al cielo e dice al pilota di seguire la stessa strada degli uccelli che migrano dalle coste africane per raggiungere anche loro Lampedusa: sono stormi di gruccioni, balie nere. Ma gli uccelli vanno veloci e tranquilli e spariscono presto dal cielo. La speranza però non svanisce ed un giovane somalo avvista una motovedetta della marina militare italiana che si avvicina. Ce l'hanno fatta. Non come tanti altri morti durante il viaggio e scomparsi nel cimitero del mare.
(4 maggio 2009)

COMITATO NO CIE - Nota stampa

Iniziato lo smantellamento del nuovo Centro per immigrati di Ponente a Lampedusa.

Sono iniziati sabato scorso i lavori per la demolizione del nuovo centro per immigrati presso la Stazione Loran di Ponente a Lampedusa.
La costruzione del CIE di Ponente era infatti avvenuta in assenza dei preventivi pareri e nulla osta necessari sulla base del regime vincolistico vigente nell’area.
Le opere erano state denunciate come abusive durante la mobilitazione contro i nuovi provvedimenti del Ministro Maroni in materia di immigrazione.
Nel corso della Conferenza di Servizi attivata per la valutazione della legittimità del nuovo centro, il Viminale ha dovuto prendere atto dell’abuso commesso, dell’impossibilità di sanare le opere realizzate e della necessità di procedere al ripristino dei luoghi.
Si tratta di un risultato di civiltà ottenuto anche grazie all’impegno e alla continua mobilitazione dei cittadini di Lampedusa. Quei cittadini che non si sono mai arresi e che continueranno a tenere alta l’attenzione su quanto accade nella loro isola.
Pertanto continuerà la raccolta di firme volta ad ottenere che il Centro di Imbriacole, attualmente destinato a centro di identificazione ed espulsione, torni ad essere quel Centro di primo soccorso ed accoglienza che dal 2006 era diventato “fiore all’occhiello” per l’Europa intera.
Rimane l’amara constatazione sull’enorme spreco del denaro di noi contribuenti che il governo ha perpetrato per costruire strutture che oggi vengono demolite. Per di più in un’isola dove si fanno i doppi turni a scuola e si rimane isolati dalla terraferma per settimane, dove neanche un soldo è mai stato speso per realizzare strutture per lo sport e la cultura e nulla si fa per incrementare pesca e turismo, le uniche risorse economiche che garantiscono la sopravvivenza dell’intera comunità delle Pelagie.

Lampedusa, 4 maggio 2009


domenica 3 maggio 2009

Più sbarchi in Italia. Ecco le rotte dell’immigrazione

Di Giampaolo Musumeci
Crescono gli sbarchi dei migranti in Italia. Aumentano i controlli, e così cambiano le rotte. E vedremo che cosa gli annunciati pattugliamenti congiunti Italia Libia, che dovrebbero partire a metà maggio, potranno fare. La Libia è infatti, insieme con la Tunisia, uno dei punti di partenza più sfruttati alla volta dell’Europa e del nostro paese. Ma la geografia dell’immigrazione è mutevole ed elastica. I dati comunicati dal prefetto Mario Morcone: nei primi quattro mesi dell’anno sono arrivati in Italia 6.300 migranti, il 75% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno quando furono 3.600 (nel 2008, in in tutto 37mila irregolari). Lampedusa continua ad essere la meta d’elezione, data la sua posizione strategica. Ma ci sono nuove rotte destinate ad assumere sempre più importanza: quella verso la Sardegna (dove, negli ultimi dodici mesi, su un totale di 665 sbarchi in tutta la penisola, se ne sono registrati ben 110) e verso la Calabria, nel tentativo di evitare i guardacoste italiani. Partendo sempre più spesso anche dall’Egitto, da piccoli e grandi porti come quello di Burg Mghizil o di Alessandria. I tratti di mare però si allungano e i pericoli anche. Le barche utilizzate sono malconce, i fuoribordo spesso cedono in mezzo al mare lasciando decine di persone senza cibo né acqua e in balia delle onde.
C’è poi la Grecia, paese di transito, e non di destinazione per la maggior parte dei migranti. È uno degli stati che meno concede asilo politico in Europa, benché sussistano oggettive condizioni. La media è attorno all’1% dei richiedenti. Così si passa dalla penisola ellenica per arrivare in Italia o proseguire per la Francia. Una delle rotte più battute dai migranti, soprattutto afgani e iracheni, è quella che parte dalla costa turca, dalla piccola Dogan Bay per esempio, per arrivare alle isole di Samo o Mitilini che distano pochi chilometri. I pattugliamenti turchi nella zona esistono solo sulla carta, dato che il guardiacoste spesso riceve la sua parte dal trafficante. E la polizia greca non dispone di mezzi sufficienti. Così, in migliaia ogni anno approdano sulle isole greche per poi riversarsi ad Atene, e di lì a Patrasso o Igoumenitsa, i due porti di partenza per l’Italia: Bari, Ancona, Venezia, che raggiungono nascosti nei camion o legati ai semiassi dei tir.
I pattugliamenti di Frontex (l’agenzia europea che si occupa del controllo delle frontiere) in collaborazione con alcuni paesi africani come la Mauritania o il Marocco hanno poi frenato almeno in parte la crescita della rotta atlantica. Da Nouadhibhou in Mauritania, ma anche dal Senegal, da Saint Louis o addirittura da Dakar si parte con piroghe di legno di una decina di metri alla volta delle Canarie. Il viaggio può durare anche una settimana. Ed è rischiosissimo, l’oceano non perdona. Nemmeno i leggendari pescatori senegalesi, i migliori conduttori di piroghe del mondo, quelli che onde di dieci metri non spaventano. Le statistiche, o meglio le ipotesi di statistiche, spesso impossibili da verificare, parlano di una piroga su cinque che si inabissa tra i flutti dell’Atlantico. Sempre dal Marocco, ora che Ceuta e Melilla, le due “enclave” spagnole sono blindatissime, e dopo che nel 2005 la Guardia Civil sparò sui migranti che tentavano di scavalcare le reti, facendo almeno tre morti, si tenta di arrivare in Spagna via mare. Si punta all’Andalusia, ad Almeria, su piccoli cayucos.
E poi c’è la parte più nascosta dell’immigrazione, quella dell’entroterra africano: difficile da monitorare, impossibile da controllare. Decine di migliaia di africani che premono sul Maghreb per poter raggiungere l’Europa. E la mafia dei “passeur”, dei trafficanti, quella, è transazionale e fa cifre da capogiro. Un migrante che parte dal centroafrica arriva a spendere migliaia di euro, indebitandosi, vendendo la casa, finendo a lavorare in condizioni di schiavitù. Può impiegare anni ad arrivare in Europa. Perdendosi nel deserto, finendo bloccato in Libia o Niger, arrestato in Tunisia. Ogni tappa del viaggio ha il suo costo e la sua tariffa. E tutto parte con un semplicissimo passaparola, dal centro di Bamako o Dakar o Ouagadougou. Poi, una telefonata, e scatta la rodata macchina dei trafficanti: i camion nel deserto da Agadez, i tuareg con i loro fuoristrada, i kalashnkikov e i telefoni satellitari. Fino alle coste e ai punti di partenza, libici e tunisini, dove altri trafficanti sono pronti a prendere in consegna i migranti. E a farsi pagare per aprir loro le porte di tuguri, dove dormire e nascondersi fino al fatidico giorno in cui si partirà per l’Europa. Rischiando nuovamente la vita. E ci sarà sempre qualcuno pronto a guadagnarci.