Crescono gli sbarchi dei migranti in Italia. Aumentano i controlli, e così cambiano le rotte. E vedremo che cosa gli annunciati pattugliamenti congiunti Italia Libia, che dovrebbero partire a metà maggio, potranno fare. La Libia è infatti, insieme con la Tunisia, uno dei punti di partenza più sfruttati alla volta dell’Europa e del nostro paese. Ma la geografia dell’immigrazione è mutevole ed elastica. I dati comunicati dal prefetto Mario Morcone: nei primi quattro mesi dell’anno sono arrivati in Italia 6.300 migranti, il 75% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno quando furono 3.600 (nel 2008, in in tutto 37mila irregolari). Lampedusa continua ad essere la meta d’elezione, data la sua posizione strategica. Ma ci sono nuove rotte destinate ad assumere sempre più importanza: quella verso la Sardegna (dove, negli ultimi dodici mesi, su un totale di 665 sbarchi in tutta la penisola, se ne sono registrati ben 110) e verso la Calabria, nel tentativo di evitare i guardacoste italiani. Partendo sempre più spesso anche dall’Egitto, da piccoli e grandi porti come quello di Burg Mghizil o di Alessandria. I tratti di mare però si allungano e i pericoli anche. Le barche utilizzate sono malconce, i fuoribordo spesso cedono in mezzo al mare lasciando decine di persone senza cibo né acqua e in balia delle onde.
C’è poi la Grecia, paese di transito, e non di destinazione per la maggior parte dei migranti. È uno degli stati che meno concede asilo politico in Europa, benché sussistano oggettive condizioni. La media è attorno all’1% dei richiedenti. Così si passa dalla penisola ellenica per arrivare in Italia o proseguire per la Francia. Una delle rotte più battute dai migranti, soprattutto afgani e iracheni, è quella che parte dalla costa turca, dalla piccola Dogan Bay per esempio, per arrivare alle isole di Samo o Mitilini che distano pochi chilometri. I pattugliamenti turchi nella zona esistono solo sulla carta, dato che il guardiacoste spesso riceve la sua parte dal trafficante. E la polizia greca non dispone di mezzi sufficienti. Così, in migliaia ogni anno approdano sulle isole greche per poi riversarsi ad Atene, e di lì a Patrasso o Igoumenitsa, i due porti di partenza per l’Italia: Bari, Ancona, Venezia, che raggiungono nascosti nei camion o legati ai semiassi dei tir.
I pattugliamenti di Frontex (l’agenzia europea che si occupa del controllo delle frontiere) in collaborazione con alcuni paesi africani come la Mauritania o il Marocco hanno poi frenato almeno in parte la crescita della rotta atlantica. Da Nouadhibhou in Mauritania, ma anche dal Senegal, da Saint Louis o addirittura da Dakar si parte con piroghe di legno di una decina di metri alla volta delle Canarie. Il viaggio può durare anche una settimana. Ed è rischiosissimo, l’oceano non perdona. Nemmeno i leggendari pescatori senegalesi, i migliori conduttori di piroghe del mondo, quelli che onde di dieci metri non spaventano. Le statistiche, o meglio le ipotesi di statistiche, spesso impossibili da verificare, parlano di una piroga su cinque che si inabissa tra i flutti dell’Atlantico. Sempre dal Marocco, ora che Ceuta e Melilla, le due “enclave” spagnole sono blindatissime, e dopo che nel 2005 la Guardia Civil sparò sui migranti che tentavano di scavalcare le reti, facendo almeno tre morti, si tenta di arrivare in Spagna via mare. Si punta all’Andalusia, ad Almeria, su piccoli cayucos.
E poi c’è la parte più nascosta dell’immigrazione, quella dell’entroterra africano: difficile da monitorare, impossibile da controllare. Decine di migliaia di africani che premono sul Maghreb per poter raggiungere l’Europa. E la mafia dei “passeur”, dei trafficanti, quella, è transazionale e fa cifre da capogiro. Un migrante che parte dal centroafrica arriva a spendere migliaia di euro, indebitandosi, vendendo la casa, finendo a lavorare in condizioni di schiavitù. Può impiegare anni ad arrivare in Europa. Perdendosi nel deserto, finendo bloccato in Libia o Niger, arrestato in Tunisia. Ogni tappa del viaggio ha il suo costo e la sua tariffa. E tutto parte con un semplicissimo passaparola, dal centro di Bamako o Dakar o Ouagadougou. Poi, una telefonata, e scatta la rodata macchina dei trafficanti: i camion nel deserto da Agadez, i tuareg con i loro fuoristrada, i kalashnkikov e i telefoni satellitari. Fino alle coste e ai punti di partenza, libici e tunisini, dove altri trafficanti sono pronti a prendere in consegna i migranti. E a farsi pagare per aprir loro le porte di tuguri, dove dormire e nascondersi fino al fatidico giorno in cui si partirà per l’Europa. Rischiando nuovamente la vita. E ci sarà sempre qualcuno pronto a guadagnarci.
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