Era successo già tante volte, da quando erano stati istituiti i centri di permanenza temporanea ( CPT) , nel 1998. Quello stesso anno Amin Saber moriva in Sicilia, nel CPT di Pian del lago a Caltanissetta, in circostanze che non sono mai state chiarite, anche se a quell’epoca si parlò di un proiettile che, nel corso di un tentativo di fuga, lo avrebbe raggiunto alle spalle. Poi, alla fine del 1999, la strage del centro di detenzione Serraino Vulpitta di Trapani, sei immigrati arsi vivi per la carenza di estintori e per i ritardi nell’apertura della cella nella quale erano rinchiusi con normali catenacci da saracinesca. I responsabili della struttura furono assolti dopo un lungo processo penale, ma per quel rogo lo stato italiano sta risarcendo oggi le vittime che riuscirono a salvarsi. Da allora, anno dopo anno, una lunga serie di morti sospette, sempre archiviate con la ritrattazione dei pochi testimoni, mentre i mezzi di informazione si limitavano ad elencare le denunce e i decreti di espulsione che riguardavano le vittime. Un modo per tranquillizzare l’opinione pubblica, in fondo ad un clandestino, ad un pregiudicato, magari anche ad un tossicodipendente, che cosa può succedere se non finire i suoi giorni dentro un centro di detenzione amministrativa?Ancora lo scorso anno, da Torino a Caltanissetta, altri decessi senza colpevoli, sempre il solito copione. Le prime testimonianze che riferiscono di percosse da parte della polizia, o di ritardi nella somministrazione delle cure mediche, poi la ritrattazione dei testimoni oculari e quindi la “dispersione” di quanti potrebbero deporre durante un processo, con la esecuzione immediata di trasferimenti e di provvedimenti di espulsione. Le cronache che riferiscono per qualche giorno della “morte di un clandestino”, i responsabili delle strutture che affermano di essere intervenuti tempestivamente, i vertici della polizia che escludono qualsiasi maltrattamento degli “ospiti”, come li chiamano loro, dei centri di detenzione. Un copione che potrebbe ripetersi ancora, oggi a Ponte Galeria, dove è morto per arresto cardiaco un immigrato algerino in attesa di espulsione, Salah Souidani, di 42 anni, domani chissà dove.Durante la visita all’interno del Centro Polifunzionale di Caltanissetta, ad esempio,diversi migranti, avevano fornito, alla presenza di parlamentari, una versione dei fatti, relativi alla morte di un giovane ghanese deceduto il 30 giugno 2008, che appariva assai diversa da quella fornita dalle autorità, in particolare per quanto concerne gli orari e le modalità di intervento dei medici. L’inchiesta avviata dalla magistratura non ha ancora stabilito le cause del decesso, se i soccorsi siano stati tempestivi, mentre la stampa locale ha continuato ad attribuire maggiore rilievo alla “cattura” di ambulanti privi di permesso di soggiorno o alla diffusione della tbc o della scabbia nei centri di accoglienza. Come al solito nessuno spazio sulle cronache nazionali.Quando si verifica la morte di un immigrato dentro un centro di detenzione amministrativa, non si può continuare a ripetere sempre che si è trattato solo di “fatalità”, chiudendo in tutta fretta il caso. Chiediamo alla magistratura, oggi a Roma come ancora a Caltanissetta, dopo la autopsia dei cadaveri delle vittime, un accertamento tempestivo dei fatti e delle eventuali responsabilità . Nell’interesse dei migranti, che sono e saranno ancora trattenuti nei centri di detenzione italiani, e degli stessi operatori delle strutture, che resterebbero altrimenti macchiati a vita dall’ombra del sospetto. Chiediamo soprattutto che vengano forniti alla magistratura i filmati registrati dai sistemi di sorveglianza, e che i diversi centri di trattenimento o di accoglienza non siano più, in futuro, affollati da un numero di persone superiore alla loro capienza, o impermeabili alla stampa ed alle associazioni umanitarie indipendenti.Quanto succede nei CIE italiani, la tragedia maturata all’interno del centro di identificazione e d espulsione di Ponte Galeria, non sono frutto di fatalità o di eventi straordinari, ma derivano dalle modalità di gestione militare dei centri di detenzione, ancora più “avvelenata” dopo l’inasprimento che si è voluto da parte del governo con il prolungamento dei termini di trattenimento fino a sei mesi. Quando qualcuno si sente male viene spesso ignorato perché si pensa che sia solo un tentativo di fuga, e le proteste vengono duramente represse, con l’uso della forza nei confronti degli immigrati. Il centro di Ponte Galeria a Roma rimane poi la struttura più inaccessibile ed anche quella dalla quale si effettuano i rimpatri verso i paesi di provenienza, come probabilmente si stava verificando anche nel caso di Salah Souidani, un luogo nel quale la disperazione può raggiungere il massimo.La notizia di una frettolosa apertura di altri ( sette o dieci non si sa) centri di detenzione amministrativa in diverse regioni italiane, la utilizzazione come centri “chiusi” dei centri di emergenza istituiti in base alla Legge Puglia del 1995, e la commistione tra immigrati appena sbarcati ( ai quali si potrebbe applicare il nuovo reato di immigrazione clandestina), ed immigrati da espellere dopo essere stati arrestati ed espulsi, perché privi di un permesso di soggiorno, non possono che alimentare le preoccupazioni più gravi per il futuro. Ed è noto quanto la detenzione amministrativa, prolungata adesso a sei mesi, risulti poco efficace al fine di un riconoscimento delle persone e di un effettivo rimpatrio. Ma quello che preoccupa maggiormente è il livello di abbandono nella quale versano gli immigrati che transitano in queste strutture, un abbandono che può anche uccidere. La carenza di assistenza medica e legale nei centri di trattenimento italiani, comunque denominati, risale a molti anni fa ed è stata altresì rilevata dalla Commissione Libertà civili e giustizia del Parlamento Europeo nel dicembre del 2007. Eppure malgrado queste denunce e le critiche contenute nella relazione della Commissione De Mistura, nella passata legislatura, la situazione dei CIE è sempre più militarizzata, poco importa se la sorveglianza è affidata alla polizia di stato o alla Croce Rossa militare, di centri di detenzione si continua a morire.Un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro ha descritto il razzismo istituzionale praticato in Italia ai danni degli immigrati. Il sistema dei centri di detenzione amministrativa, soprattutto dopo il prolungamento del trattenimento fino a sei mesi, rappresenta il perno delle politiche di esclusione e di criminalizzazione che con violenza crescente si rivolgono nei confronti degli immigrati. Piuttosto che reagire con sdegno alle accuse ben documentate del rapporto delle Nazioni Unite, sarebbe bene che i rappresentanti del governo si preoccupino di verificare il rispetto delle norme e dei diritti fondamentali dei migranti rinchiusi nei CIE italiani.Le esperienze precedenti, i ricorrenti insabbiamenti non ci permettono di nutrire fiducia nelle indagini amministrative già disposte dal ministero dell’interno “per fare chiarezza” su quanto realmente accaduto nel centro di detenzione di Ponte Galeria. La copertura data dal governo, ancora oggi, agli autori della “macelleria” di Bolzaneto e della Diaz lascia prevedere , ammesso che si riesca ad individuare dei responsabili, un simile atteggiamento anche nei confronti di coloro che si rendono responsabili di violenze ed abusi ai danni degli immigrati rinchiusi nei CIE o in strutture similari. Chiediamo una ispezione urgente del Comitato di prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, nei centri di detenzione amministrativa italiana, comunque denominati, per accertare le condizioni di legalità, il rispetto del diritto alla salute e delle norme di sicurezza. Chiediamo alla Commissione Europea un rigoroso monitoraggio delle modalità di attuazione in Italia della Direttiva 2008/115/CE in materia di rimpatri e di detenzione amministrativa.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo
Nessun commento:
Posta un commento